Affettività e sessualità in adolescenza
Affettività e sessualità in adolescenza
Dott.ssa Fanny Migliaccio psicologa, Roma
L’ affettività si delinea nel corso dell’adolescenza ed è espressione diretta della personalità e della specifica organizzazione di significato personale di ciascuno; il suo percorso evolutivo non termina con la fine dell’adolescenza ma accompagna l’intero arco esistenziale, fino all’età più avanzata.
Considerando quanto appena detto, la sessualità, che raggiunge la maturazione funzionale nel corso dello sviluppo puberale, non costituisce che un aspetto, sia pure essenziale, della dimensione affettiva di ogni persona.Una sessualità adeguata (nel senso di accettabile per il soggetto che la vive, in accordo con come si vede e come si progetta) rappresenta un obiettivo di fondamentale importanza per una buona maturazione.Un ambiente affettivamente adeguato, rapporti tra coniugi (e, più in generale, tra tutti i membri della famiglia) equilibrati, chiari, empatici, non superficiali sono condizioni di fondamentale importanza rappresentano il maggiore elemento di prevenzione dei disturbi affettivi.
Se la maturazione affettiva rappresenta l’ambiente soggettivo entro cui si struttura e acquista uno specifico significato della personalità, la sessualità (che ne rappresenta, una dimensione) segue tappe evolutive più evidenti, che assumono un importanza essenziale durante la pubertà. I profondi cambiamenti realizzatisi negli ultimi decenni nella società occidentale hanno fortemente condizionato il modo di considerare la vita sessuale, soprattutto per quanto concerne gli adolescenti.Inoltre, anche a proposito della sessualità, occorre tenere presente che è impossibile pensare all’adolescenza come ad una fase della vita sufficientemente omogenea e caratterizzabile. Anzitutto, lo sviluppo psico-sessuale segue tappe diversificate, anche cronologicamente, a seconda del sesso.
In secondo luogo, ogni adolescente presenta caratteristiche di unicità e irripetibilità, vive cioè il passaggio dalla fanciullezza all’adultità a modo suo, sulla base delle proprie caratteristiche e della propria organizzazione ideo-affettiva, attraverso la quale costruisce un suo peculiare significato personale.Dunque, anche per quanto riguarda la sessualità, un adolescente non può essere visto come una sorta di bambino cresciuto o di adulto incompleto, nè come la riedizione della nostra adolescenza e delle esperienze da noi vissute alla sua età; e invece una persona assolutamente unica ed originale, che partecipa nella sua globalità ai cambiamenti in atto, che va ascoltata e compresa e con cui ci si deve confrontare in un rapporto di reciproca attenzione.
La sessualità (e, più in generale, l’affettività) ripropone due grandi problematiche adolescenziali. Di fronte a sè l’adolescente vede aprirsi non una, ma una serie di possibilità (magari trascurate o rinviate), con la conseguenza di dover operare prima o poi delle scelte.
Si sente in trasformazione, assiste a profondi cambiamenti nell’aspetto e nella funzione, non è più il soggetto indifferenziato della fanciullezza: deve in qualche modo farsi carico della propria corporeità, non solo difendendo la propria identità personale, ma anche accettando ad integrando nell’immagine di sè la propria mascolinità o femminilità, compresi eventuali difetti e disfunzioni.
La comparsa dei caratteri sessuali secondari comporta dunque l’accettazione,a volte fonte di preoccupazioni e di crisi, della propria sessualità, dell’appartenenza ad uno specifico sesso, sia da un punto di vista biologico che da quello sociale. L’adolescente abbandona le relazioni infantili e la visione, totalizzante ed univoca, che aveva del mondo e che dava sicurezza e continuità al suo senso di identità personale. La seconda problematica è data dal bisogno di dar vita ad un nuovo universo affettivo e nasce dal bisogno di autoaffermazione e di autodeterminazione, che porta l’adolescente a vivere in prima persona le proprie esperienze, staccandosi dai modelli familiari e ridefinendo i rapporti significativi. Nascono così i primi innamoramenti, le prima cotte, spesso superficiali e transitorie e all’inizio più sognate che attuate. Il debutto affettivo può rafforzare una buona immagine personale o, al contrario un’immagine svalutata o insicura.
Uno degli aspetti cruciali derivanti dall’affacciarsi delle problematiche sessuali è la notevole enfasi attribuita al proprio aspetto fisico ed ai propri atteggiamenti; ciò produce spesso una forte paura di uscire allo scoperto, di esporsi, di rivelare quello che si prova, di farsi giudicare, di non essere adeguati o all’altezza della situazione, di fallire. Dunque nella maturazione adolescenziale la sessualità assume un ruolo centrale sia sotto l’aspetto fisico che sotto quello psico-sociale. Essa non è mai separabile dall’affettività, ma ne è in qualche modo lo strumento ed il catalizzatore.
L’affettività adolescenziale va presa in considerazione molto seriamente, sia per la forte pregnanza con cui viene vissuta, sia per il ruolo strumentale che essa ha nei confronti del futuro stile affettivo della vita adulta. È pertanto importante che i legami adolescenziali vengano vissuti come “esperimenti fisiologici” alla ricerca del rapporto giusto: quello dove l’elemento centrale non sia l’essere accettati dall’altro, ma il condividere valori e progetti, in maniera partecipante attiva ed aperta all’ascolto dell’altro: non occorre essere la “fotocopia” dell’altro per stare bene insieme ma occorre vivere il rapporto con rispetto e attenzione reciproca.
In questo cammino di crescita l’adolescente non deve sentirsi solo, mentre sperimenta profondi cambiamenti che ne modificano l’immagine e i ruoli sociali; deve cioè essere aiutato nello scoprire la propria sessualità e nel prevenire ed eventualmente correggerne le alterazioni; deve essere informato e deve poter provare validi punti di riferimento con cui confrontarsi; deve essere rassicurato e supportato con chiarezza nei dubbi e nelle ansie che emergono. Ma soprattutto è necessario che sia rispettato come persona che, nella ricerca di una adeguata concezione di sè e del mondo, ha bisogno di non essere sostituito, svuotato, limitato, intruso, frenato da scorretti interventi esterni, tanto più dannosi quanto più inutilmente iperprotettivi e invischianti.
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Anoressia nervosa
Psicologia – Dott.ssa Fanny Migliaccio psicologa, Roma
QUALI SONO LE CAUSE DELL’ANORESSIA?
Le cause di questa malattia non sono ancora chiare, infatti possono essere molteplici. Nel tentativo di risalire alle origini dei disturbi dell’alimentazione gli scienziati hanno preso in considerazione la personalità, il bagaglio genetico, l’ambiente e le caratteristiche biochimiche dei pazienti.
Alcuni tratti della personalità che accomunano gli anoressici sono una scarsa stima di sé stessi, asocialità, e una tendenza al perfezionismo. Questi soggetti si rivelano spesso buoni studenti ed ottimi atleti.
I disturbi dell’alimentazione si ripetono spesso fra gli appartenenti alla stessa famiglia, in particolare fra i parenti di sesso femminile. Una ragazza ha una possibilità da 10 a 20 volte superiore di sviluppare l’anoressia se per esempio ha un fratello o una sorella affetti da questa patologia.Queste scoperte farebbero pensare che fattori genetici siano alla base della predisposizione ai disturbi del comportamento alimentare o l’apprendimento dai famigliari del mito della magrezza. Modi comportamentali e l’ambiente possono rivelarsi concause.
I disturbi dell’alimentazione sono diffusi soprattutto nei Paesi occidentali ed in quelli industrializzati, dove la magrezza è diventata un modello di fascino.
Certamente gli stress possono aumentare il rischio dei disturbi del comportamento alimentare, ma possono essere causa anche di altri disturbi della personalità.
L’anoressia come gli altri disturbi del comportamento alimentare e più in generale come i disturbi fobico-ossessivi può essere considerato un disturbo psico-sociale.
Questo significa che per la comprensione dei processi che mantengono il disturbo nel tempo non possiamo non considerare gli aspetti relazionali e sociali della vita del paziente.
Le anoressiche, tendono a presentarsi come persone estremamente dotate, intelligenti, capaci. Addirittura possono essere ottime cuoche e cucinare spesso per gli altri, familiari . A scuola ottengono generalmente buoni se non ottimi risultati. Quando questo accade l’ipotesi di un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità sottostante è da tenere maggiormente in considerazione.
In realtà il paziente con diagnosi di anoressia è probabile che non abbia potuto sperimentare e sviluppare un controllo interpersonale nei confronti delle figure significative di riferimento (in particolare i genitori). Significa che non c’è stata la possibilità, soprattutto nelle prime fasi dello sviluppo psicologico, di sperimentare quello che in psicologia definiamo senso di volizione ovvero la sensazione di essere noi, con comportamenti e pensieri, a condizionare gli eventi.
Questo porta il paziente anoressico a rivolgere il proprio controllo su se stesso e sul proprio corpo. Non mangiare significa per il paziente con diagnosi di anoressia sentire che agisce un controllo volontario superiore ad una spinta “fisiologica” dell’organismo. Questo offre sensazione di potere. In genere nelle prime fasi dello sviluppo patologico c’è un picco di euforia che scaturisce proprio dalla sensazione di gestione e controllo.
Poi si passa inesorabilmente verso una fase più cupa in cui tutta l’attenzione sarà posta sull’essere malati, sul sentirsi malati. Non tanto perché ci si può rendere conto di essere anoressici, ma quanto perché sono gli altri, familiari e partner in testa, che ce lo ricordano costantemente.
La paura per un processo che tende verso la cronicizzazione e l’irreversibilità porta chi ci sta intorno a cercare di fare qualcosa per aiutare a risolvere un problema che, però, per l’anoressica non è così grave come sembra agli altri.
A questo punto c’è una lotta che si crea tra il paziente e gli altri, compresi i sistemi di cura tradizionali che noi chiamiamo conflitto psico-sociale.
Ad ogni occasione si cerca di convincere il paziente a mangiare, spesso si assistono a minacce, e la maggior parte delle volte i genitori preparano la tavola anche se sanno che il proprio figlio non mangerà, come se “nutrissero” la speranza che avvenga un miracolo. Ogni atto teso a cercare di convincere il paziente a mangiare è destinato a fallire e alimenta incomprensioni che portano il paziente a mantenere il sintomo.
Il sintomo per il paziente è una conquista e più si andrà contro tale conquista anche se patologica e disfunzionale, maggiore sarà la possibilità che il sintomo si cronicizzi.
Questo “desiderare il sintomo” (desiderio non cosciente) nasce dal loop disfunzionale che si genera dal conflitto psico-sociale di cui abbiamo parlato.
Quando il paziente con anoressia è un adolescente l’intervento psicologico parallelo sul paziente e sui genitori è auspicabile. Si chiede però al genitore uno sforzo nell’accettare a volte indicazioni che possono sembrare contrarie al senso comune.
L’intervento psicologico è mediamente breve. Nei casi di pazienti fino ai 30 anni in genere la durata media è di 15-20 sedute più un breve processo di mantenimento.
L’intervento psicologico è valido finché il paziente non abbia raggiunto il limite di peso sotto il quale è necessario il ricovero ospedaliero.
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Cos’è la psicoterapia Gestalt?
La psicoterapia Gestalt
Psicoterapia Gestalt – testo wikipedia, video Dott. Paolo Baiocchi
La psicoterapia Gestalt (dove la parola tedesca Gestalt significa forma, schema, rappresentazione), detta anche psicologia della forma, è una corrente psicologica riguardante la percezione e l’esperienza che nacque e si sviluppò agli inizi del XX secolo in Germania (nel periodo tra gli anni ’10 e gli anni ’30), per poi proseguire la sua articolazione negli USA, dove i suoi principali esponenti si erano trasferiti nel periodo delle persecuzioni naziste.
Storia
La parola Gestalt fu usata per la prima volta, come termine tecnico, da Ernst Mach[1]; in seguito Edmund Husserl[2] e Christian von Ehrenfels[3] ripresero il termine da Mach nelle loro teorie psicologiche a fondamento filosofico.
Fondatori della psicologia della Gestalt sono di solito considerati Kurt Koffka, Wolfgang Köhler e Max Wertheimer che sono stati certamente i principali promotori e teorizzatori scientifici di questa corrente di ricerca in Psicologia. I loro studi psicologici si focalizzarono soprattutto sugli aspetti percettivi e del ragionamento/problem-solving. La Gestalt contribuì a sviluppare le indagini sull’apprendimento, sulla memoria, sul pensiero, sulla psicologia sociale.[4]
L’idea portante dei fondatori della psicologia della Gestalt, che il tutto fosse diverso dalla somma delle singole parti, in qualche modo si opponeva al modello dello strutturalismo, diffusosi dalla fine dell’Ottocento, ed ai suoi principi fondamentali, quali l’elementarismo.
Le teorie della Gestalt, si rivelarono altamente innovative, in quanto rintracciarono le basi del comportamento, nel modo in cui viene percepita la realtà, anziché per quella che è realmente; quindi il primo pilastro della teoria della Gestalt fu costruito sullo studio dei processi percettivi e in una percezione immediata del mondo fenomenico.[5]
Il modello teorico della Gestalt riguardante il pensiero si oppose a quello comportamentista, secondo il quale gli animali risolvevano le problematiche con un criterio costituito da tentativi ed errori, proponendo invece un criterio di spiegazione formato dal pensiero, dalla comprensione e dalla intuizione.
Anche nel settore della psicologia sociale le teorie della Gestalt entrarono in conflitto con quelle comportamentiste, che prevedevano di spiegare il comportamento sociale solo in base alle gratificazioni sociali, quali l’elogio e l’approvazione, e proposero invece la teoria dell’attribuzione che metteva in risalto le sensazioni, le percezioni, gli obiettivi, le intenzioni, le convinzioni, le motivazioni e le credenze.[4]
Successivamente, importanti studi furono condotti da Lewin con la teoria del campo e Goldstein con una teoria della personalità secondo la quale l’intero organismo partecipa al comportamento.
In seguito a partire dagli anni ’60, la Gestalt soffrì per alcuni decenni della sua difficoltà a misurarsi con l’avanzato metodo sperimentale e gli approcci psicometrici utilizzabili dal nascente movimento cognitivista, ed il suo modello di teoria della mente si dimostrò meno euristico di quello del cognitivismo in tutti i settori che non fossero legati alla psicologia della percezione. Solo in quest’ultimo ambito, per via di alcune difficoltà a spiegare alcuni fenomeni percettivi in un’ottica strettamente cognitivista, la Gestalt ha recuperato un limitato interesse alla fine del XX secolo. Interessante appare infatti l’attenzione agli aspetti fenomenici della percezione, che il cognitivismo ha in parte trascurato nel suo programma di ricerca. Anche se teorie sui campi elettrici del cervello hanno perso, col passare degli anni, la considerazione da parte dei fisiologi.
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Ansia prematrimoniale
Ansia prematrimoniale o Ansia da matrimonio.
Quando ci troviamo di fronte ad un bivio, e crediamo di saper scegliere ciò che è giusto per noi, ci accorgiamo solo dopo che qualcosa non va, non funziona come noi vorremmo ed è a questo punto che il signor Inconscio si presenta con il suo bel biglietto da visita! Lo lasciamo entrare, ma è molto fastidioso, ci crea disagio, ci fa riflettere, ci confonde. Le nostre certezze cominciano a sgretolarsi e noi lì a girarci i pollici e a chiederci: “Ma cosa mi sta succedendo?”.
Questa è la domanda che più comunemente rivolgiamo a noi stessi e alla quale non riusciamo a dare una risposta perché, quasi sempre, neanche noi abbiamo consapevolezza delle nostre emozioni, che sono così facili da definire ma così difficili da capire.
Quando un cliente arriva da me e mi chiede perché sente quella emozione, non riceve una risposta, perché solo il cliente può sapere da dove viene il suo sentire, quello che mi limito a fare è aiutarlo a cercare la strada, quella che, forse, era stata messa da parte per percorrerne un’altra all’apparenza più comoda .
I dubbi di chi sta per compiere un passo importante come quello di sposarsi sono, quasi sempre, funzionali alla propria esistenza.
E’ giusto chiedersi cosa si sta per fare, perché è giusto preoccuparsi per la propria felicità.
Mettere in discussione le nostre scelte, quelle che sembravano inevitabili e scontate, è sintomo che qualcosa sta per cambiare in noi e nella nostra vita di tutti i giorni. Sposarsi è sicuramente qualcosa che cambia la nostra quotidianità, la trasforma, e chi non avrebbe paura di questo?
L’ansia, il panico prematrimoniale sono i sintomi di tutto ciò, fanno parte dell’aver paura di scegliere la strada sbagliata, di poterci perdere e non poter tornare in dietro. Sono tanti i motivi per cui questo accade, a volte dipende dalle nostre aspettative che abbiamo paura di non soddisfare, altre volte possono dipendere dalla persona che abbiamo accanto, che ci accorgiamo non essere più quella di prima, e altre ancora possono dipendere solo da noi e da quello che stiamo vivendo.
Il grosso problema dell’ansia prematrimoniale è rappresentato dalla maturità individuale, che consente una scelta consapevole. La visione illusoria, tipica di una visione immatura della vita, avvia comportamenti apparentemente autolesionistici: “Lo sposo anche se ha tanti difetti, è destino; io lo farò cambiare“. Un senso di onnipotenza, capace di trasformare tutto a proprio piacimento, anche le persone.”
Secondo Sternberg, vi sono tre elementi determinanti per il buon funzionamento di una coppia: l’attrazione fisica (che non è eterna), il sentimento d’amore ed i fattori cognitivi. I fattori cognitivi sono importantissimi: “ti conosco e mi stai bene per quello che sei”. Quest’ultimo è il presupposto più importante per essere certi che quella con cui stiamo è effettivamente la persona con la quale si vuole condividere il destino.
Spesso si afferma, pensando al proprio partner: è la mia mezza mela, la metà coincidente con me, mi è complementare, mi completa, insieme siamo una unità. Sembrerà strano ma affermazioni di questo genere, rappresentano le premesse di sfascio di un rapporto.
Ogni individuo deve essere intero per poter amare; non si deve fare una scelta per compensare le proprie mancanze.
Da una analisi statistica emerge che il 67% negli USA ed il 30% in Italia delle coppie sono separate. Emerge che nella maggior parte dei casi per gli Stati Uniti d’America ed in una buona parte dei casi in Italia, la scelta di un partner per la vita appare poco consapevole.
Quali sono i motivi che possono creare instabilità nella coppia?
L’inconscio, per effetto di bisogni e relazioni insoddisfatte del nostro passato (rapporto padre/figlio-a, madre/figlia-o, ingranaggi di famiglia ecc.) domina le nostre scelte e ci porta a ripetere sistematicamente i medesimi errori. Il vissuto dei genitori, cioè come i genitori di un individuo si sono relazionati tra loro. I bambini osservano tutto. Osservando i disegni della loro famiglia, realizzati dai bambini, si ottiene un quadro generale di come il bambino sta vivendo la sua famiglia.
Un bambino che non si è potuto fidare dei suoi genitori nel primo periodo della sua vita, sarà incline alla diffidenza esagerata, nella vita adulta. E’ il caso di quelle mogli e di quei mariti sempre dubbiosi, che fanno vivere al proprio partner una condizione di continuo ed ingiustificato “stato di prova“.
Se non ci siamo sentiti riconosciuti da bambini, mediante l’indifferenza o la svalutazione, la tendenza a trattare con sufficienza e a svalutare il nostro partner sarà una costante del nostro modo di relazionarci con l’altro. Non è piacevole vivere a fianco ad una persona che ci svaluta. L’adulto con questa esperienza infantile è incline allo scontro, alla reazione eccessiva: ecco, non mi dici questo perchè… Sei sempre lo stesso e non cambi mai…
Una visione infantile ed illusoria del rapporto di coppia non può funzionare nel tempo. La visione matura di un rapporto è equilibrata quando le aspirazioni e le attese sono congrue con la realtà.
Quando queste sono esagerate, eccessive e non realistiche, “mi aspetto che il mio futuro marito all’occorrenza mi faccia da papà o la mia futura moglie è una persona straordinaria, non è come le altre.. ecc.“, queste distruggono il rapporto.
Il rapporto d’amore in una coppia sana è un rapporto che non ha bisogno di conferme eccessive, straordinarie e continue, è una via di mezzo tra il non troppo e non troppo poco. La libertà ed autonomia di ogni appartenente alla coppia è presente e non eccessiva. Non possiamo amare una persona della quale siamo dipendenti.
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La depressione negli anziani
La depressione negli anziani solo nel 50% dei casi viene riconosciuta correttamente, e quando succede solo il 50% viene curato in modo adeguato. Negli anziani l’identificazione della depressione è complicata dal fatto che alcuni sintomi chiave, quali astenia, facile faticabilità, disturbi del sonno, perdita di peso corporeo, accompagnano spesso il processo dell’invecchiamento, così come sono sintomi di numerose patologie somatiche di cui l’anziano è sovente affetto. Anche il criterio che prevede che i sintomi della depressione siano in grado di limitare le attività sociali e del vivere quotidiano è più difficilmente applicabile alla persona anziana, nel quale la frequente presenza di malattie fisiche rende più incerta la attribuzione delle limitazioni di attività al disturbo depressivo. Il vecchio depresso tende a sottovalutare la sua depressione e a non riferire spontaneamente sintomi importanti, quali la diminuzione di interesse o di piacere in tutte o quasi tutte le attività, richiamando invece l’attenzione del medico sul proprio corpo sofferente, che viene quindi utilizzato quale “mediatore” della comunicazione del disagio emotivo. La scarsa propensione dell’anziano a comunicare è racchiusa nell’espressione “depressione senza tristezza”, emblematica del vissuto di molti anziani depressi. La depressione senile è variamente influenzata dalla presenza di deficit cognitivi (di memoria, attenzione, concentrazione, ecc.), che possono arrivare fino a simulare un quadro clinico di demenza e che migliorano dopo trattamento con farmaci antidepressivi. Il termine “pseudodemenza”, utilizzato in passato per identificare questi quadri clinici estremi, è stato progressivamente abbandonato. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che la maggior parte di queste forme evolvono nel tempo in una vera demenza, di cui rappresentano probabilmente degli stadi molto precoci.
I fattori che incrementano il rischio di depressione in una persona anziana riguardano aspetti esistenziali, sociali, psicologici e biologici, variamente intrecciati tra loro nei singoli casi. I fattori più documentati sono il sesso femminile, essere celibi/nubili o vedovi, la disabilità (ad es. per malattia), un lutto recente e l’isolamento sociale. Va ricordato che gli anziani sono particolarmente esposti ad eventi di perdita, quali ad es. la scomparsa di persone care, il pensionamento, la riduzione del ruolo sociale e delle risorse economiche, ecc. Altre condizioni che predispongono un anziano alla depressione possono essere la presenza continua di dolore fisico, l’abuso di alcool o una storia personale o familiare di depressione. Nelle persone che sviluppano per la prima volta un quadro depressivo in età avanzata, la risonanza magnetica nucleare evidenzia spesso delle piccole alterazioni che indicano un’insufficienza circolatoria a livello cerebrale. Alcune malattie, quali ictus, l’ipertensione, il diabete o la demenza si associano alla depressione nel 30 al 80% dei casi. In particolare, i rapporti tra Demenza di Alzheimer e depressione non sono a tutt’oggi ancora chiariti, anche se sembra probabile che quest’ultima possa rappresentare sia un fattore di rischio per l’insorgenza della demenza, sia una sua manifestazione precoce. Da ultimo, ma non certo per importanza, l’assunzione di alcuni medicinali (ad esempio cortisonici, alcuni antiipertensivi o sedativi) può indurre l’insorgenza di un quadro depressivo indistinguibile da quello spontaneo. Ancor più che negli adulti giovani, la complessità e l’estrema variabilità individuale di tutti questi fattori di rischio devono essere considerate sia nel momento diagnostico che nella elaborazione di una strategia terapeutica.
A differenza della depressione dell’adulto giovane, che si manifesta generalmente con un insieme piuttosto definito di sintomi caratteristici, nell’anziano è frequentissima una forte espressività di solo due o tre sintomi depressivi, capaci di provocare comunque una grave sofferenza. I due sintomi fondamentali della depressione sono una tristezza persistente che duri da due o più settimane e la perdita o diminuzione di interesse e piacere. Le attività quotidiane risultano compromesse in modo variabile a seconda della gravità del quadro depressivo. Altri segni importanti possono essere quelli di tipo fisico, quali alterazioni dell’appetito e del peso corporeo, alterazioni del sonno, stanchezza. Frequente è http://www.lauriemckray.com/content/21.html?langpair=en%7Cde_hl=en_ie=UTF8
la presenza di ansia, inquietudine, talora agitazione. I pensieri sono spesso improntati alla perdita della speranza, al pessimismo, all’ inadeguatezza, talora a vissuti di colpa non giustificati. L’anziano depresso, più del giovane, può sviluppare sintomi quali irritabilità, ostilità o anche sospettosità, sino a veri e propri deliri di persecuzione (ad es. di gelosia o riferito al furto di oggetti personali). Altre espressioni depressive tipiche dell’età avanzata comprendono lamentele eccessive circa la perdita di memoria o la presenza di dolori vaghi, diffusi, mutevoli nella sede e nell’intensità, che vengono talora attribuiti a malattie inesistenti (ipocondria), mentre altre volte si confondono con quelli di una patologia fisica reale. Infine, il vecchio depresso può percepire la vita come non più meritevole di essere vissuta e, nei casi più gravi, desiderare di porvi fine.
La depressione senile ha un decorso ed una prognosi peggiori rispetto a quella degli adulti giovani: gli episodi sono più lunghi (anche anni) e la tendenza alle ricadute ed alla cronicizzazione è due volte più elevata.La conseguenza più drammatica della depressione è il suicidio. La frequenza dei suicidi nella popolazione anziana risulta più che raddoppiata rispetto alla popolazione generale ed è massima nei soggetti maschi di oltre 85 anni. La depressione è un importante fattore di rischio per il suicidio ed il 60-70% delle persone anziane che si suicidano presentano una depressione clinica.
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La Separazione
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