Psicosi: una diagnosi precoce per ridurne i danni
Casi come quello di Luca hanno spinto alcuni operatori a proporre l’inserimento di una nuova diagnosi di rischio psicosi per la prossima quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), la “bibbia” delle diagnosi di salute mentale. Per ricevere questa diagnosi, il paziente dovrebbe avere deliri o allucinazioni una volta alla settimana (in contrasto con la maggior parte del tempo per almeno un mese per psicosi clinica). Inoltre, dovrebbe essere notevolmente afflitto da quei sintomi. L’idea di inserire una tale diagnosi nel DSM è molto controversa, ma i sostenitori sostengono che i pazienti come Luca hanno bisogno di aiuto immediato, sono ad alto rischio di sviluppare in pieno una psicosi, la diagnosi precoce potrebbe essere in grado di avere risultati migliori di guarigione.
Attualmente i pazienti con diagnosi di psicosi conclamata trovano sollievo, grazie ai cosiddetti farmaci antipsicotici atipici come il risperidone e olanzapina, che aiutano a ridurre allucinazioni e deliri. I pazienti possono anche beneficiare di alcune forme di psicoterapia. E i dati suggeriscono che se tali pazienti ricevono aiuto da entrambi i metodi, i risultati saranno migliori.
Un recente articolo pubblicato sul British Journal of Clinical Psychology ci rassicura sul fatto che noi tutti nella vita abbiamo avuto o avremo, con discreta probabilità, sintomi psicotici di lieve o media entità. Sintomi simil-psicotici quali le voci, sensazioni extra-corporee, visioni religiose o allucinazioni d’altro tipo, non sembrano essere così rari tra la popolazione generale.
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Nuovo anno, nuovi propositi
Ogni anno si apre con una sfida quasi impossibile: fare (e rispettare) una lista dei buoni propositi dell’anno nuovo, ma la difficoltà è quella di trovare degli obiettivi realizzabili, ma al contempo validi e importanti.
Adoro la lista dei buoni propositi : mensile, fatta a settembre dopo l’estate, per l’anno venturo, o solamente scritta per se stessi, per fare il punto della situazione e chiarirsi le idee. Non so se per voi è lo stesso, ma per me la fine dell’anno è il momento in cui decido di lasciarmi alle spalle le cose che non voglio più e di descrivere, in teoria, in una lista, ciò che vorrei che fosse la mia vita, i buoni propositi da realizzare, le cose da valorizzare e approfondire, migliorare e portare avanti con me. Mi piace scriverla perché riesco finalmente a soffermarmi, rallentare e progettare qualcosa di davvero mio, in silenzio sul divano, con la musica sottofondo. Si dice che gli uomini redigano questo tipo di liste per stabilire obiettivi specifici e metterli in chiaro, le loro liste sono private; le liste delle donne sono invece più pubbliche, condivise, per loro è più importante rendere pubblici gli obiettivi e condividerli con familiari e amici che possono sostenerle nel raggiungerli… che ne pensate? La difficoltà è quella di trovare degli obiettivi realizzabili, ma al contempo validi e importanti.
Tanti, veramente tanti si lamentano per la loro situazione lavorativa, personale, amorosa ma pochi, veramente pochi, fanno realmente qualcosa per modificare ciò che non gli piace o peggio, li fa soffrire. Si da la colpa sempre ad altri, a qualcuno che ci ostacola, influenza, scoraggia, a qualcosa che si poteva fare ma non si è ancora fatto, col risultato che poi non si prova mai a raggiungere nessun obiettivo. Ma allora perché non agiamo per migliorare la nostra situazione? Perché è tanto difficile tradurre in realtà una lista di buoni propositi? Perché anche semplici decisioni (es. come interrompere una brutta abitudine, iscriversi in palestra o a nuoto, rimandare una visita importante o una decisione ecc.) sembrano scelte faticose e difficili e ciò ci spinge a non agire. La risposta è nel fatto che siamo poco abituati al cambiamento. Preferiamo restare dove siamo anche se non ci fa stare bene, anche se siamo consapevoli che potremmo avere di più. Abbiamo un paura che il nuovo possa essere peggio del vecchio e scoviamo mille scuse e giustificazioni per non muoverci da dove siamo. Fate un esperimento per capire la “resistenza al cambiamento”, alzatevi a adesso e bevete un bicchiere di acqua.
Forse lo hai fatto, oppure no, per pigrizia, hai pensato che tanto è inutile e non serve a niente. Che tu lo abbia fatto o meno hai comunque sperimentato una resistenza, una tensione, una spinta all’azione bilanciata o meno, da una spinta all’immobilismo. Ecco questo è ciò che accade sempre. Eppure la maggior parte della nostra vita è formata da tanti piccoli gesti che sommati tra loro creano grandi eventi. Impariamo dalle piccole cose, dai piccoli gesti, ad abituare la nostra volontà, a prendere decisioni.
Cosa ci può aiutare nel mantenere fede alle promesse che ci siamo fatti nei primi giorni di gennaio? Sicuramente alcune caratteristiche sono d’aiuto, come l’ottimismo e l’autostima che aumentano la percezione di avere il controllo sulla propria vita. Un gruppo di ricercatori dell’Università della California ha pubblicato uno studio che rivela un gene alla base di queste importanti risorse psicologiche. Il gene è associato a un recettore dell’ossitocina, ormone protagonista nella relazione mamma- bambino, che può avere due varianti. Una delle due è associata a sensibilità allo stress, a minori capacità sociali e un più debole stato di salute. I ricercatori hanno messo in luce che la stessa variante è presente in coloro che hanno scarsa autostima e che in generale, non sentono di avere in mano il proprio destino.
Quali possono essere le cause di un fallimento? Tra le scuse più adottate c’è la mancanza di tempo a causa dei molteplici impegni quotidiani. Di sicuro però è nella scelta del proposito che cominciano i problemi. Il proponimento espresso in negativo (non fare…) è più difficile da mantenere, così come impegni al di fuori della nostra portata che si avvicinano più a un sogno che a un obiettivo. Cosa può aiutare a mantenere fede ai propositi dell’anno nuovo:
– condividere il proposito con gli altri: sapere che qualcuno potrebbe constatare il fallimento è una forte spinta ad impegnarsi;
– dividere l’obiettivo in un piano articolato in più sottopassaggi ordinati temporalmente;
– fare una lista dei possibili ostacoli così da essere preparati ad affrontarli senza lasciarsi abbattere.
A questo punto però si dovrebbe fare il passo successivo, che è quello di stilare la lista delle cose che vogliamo nella nostra vita, e prendersi del tempo per visualizzare la vita che vorremmo. Molta gente, invece e purtroppo, non passa mai a questa fase, o perché hanno paura di essere chiamati sognatori o perché in realtà non credono che le cose cambieranno mai, dato che l’evidenza della realtà che vivono continua a raccontare la solita vecchia storia!
Invece è proprio questo che li farà cadere negli stessi errori del passato e che non farà mai cambiare la realtà che vedono davanti ai loro occhi.
Quindi state bene attenti quando formulate i vostri nuovi propositi per quest’anno e siate sicuri di stare formulando delle affermazioni positive e che vi state focalizzando su come vi volete sentire e non sul come non volete sentirvi più!
Perché se continuiamo a porre l’attenzione su quello che non vogliamo più laLegge d’Attrazione ce ne darà ancora e ancora, perché quelle cose che non vogliamo stanno dominando la nostra vibrazione.
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Le amiche della sposa-intervista alla Dott.ssa Fanny Migliaccio
Sito web : http://www.cosmopolitan.it/for-you/Quando-l-amica-si-sposa
Una scena del film Le Amiche della Sposa
La tua migliore amica sta per salire all’altare e temi che il vostro rapporto possa cambiare? Ecco i consigli dell’esperta per rinnovare la vostra amicizia.
La tua migliora amica si sposa e tu ti chiedi che cosa succederà al vostro rapporto? Che ne sarà delle vostre chiacchere, degli aperitivi, delle serate in discoteca? Quando la persona che ha condiviso con noi gioie e dolori sta per pronunciare il fatidico “sì, lo voglio”, oltre alla gioia di vedere la nostra migliore amica salire all’altare, felici che (almeno lei) abbia trovato l’uomo dei sogni, c’è anche la paura di perdere un legame esclusivo. Proprio come è successo a Annie, la protagonista del film Le Amiche della Sposa, dal 6 dicembre disponibile in Dvd e Blu-ray (per chi se lo è perso e per chi pensa che rivederlo con le amiche possa strappare un sorriso). Come ci si può relazionare a una realtà così differente? Abbiamo chiesto consigli su come reagire e quali sono i comportamenti più adatti da adottare in tali situazioni alla psicoterapeuta Fanny Migliaccio, specializzata in dinamiche relazionali e gestione delle emozioni.
Il matrimonio di un’amica è sicuramente un momento felice da condividere con lei, ma può essere anche l’occasione (come succede alla protagonista del film, Annie) per fare il bilancio della propria vita o sulla situazione sentimentale di entrambe. E’ possibile che nascano contrasti o gelosie? Come affrontarle?
“Credo che sia più che naturale provare un po’ di invidia e gelosia per l’amica che realizza un sogno; quello che reputo importante è che l’invidia sia sana, e che non comprometta l’amicizia e l’affetto con l’amica che sta per sposarsi. Provarla non deve farci sentire in colpa, al contrario, può suscitare in noi delle domande sul perché la proviamo: forse siamo stanchi di vivere sull’Isola che non c’è come eterne Peter Pan, o di raccontarci che la convivenza è esattamente come essere sposati senza troppi vincoli, o che il matrimonio è solo un grande spreco di soldi e di energia. Insomma, ce ne sarebbero di domande da farsi, ma la cosa più importante è riuscire ad essere sinceri con se stessi e con gli altri. Per tutti questi motivi si può raccontare all’amica che sta per sposarsi di essere un po’ invidiosa, e la reazione sarà meno negativa di quel che immaginiamo. In fondo ad ogni sposa non può far che piacere essere invidiata (apertamente) dalle sue amiche”.
Nel film, due amiche della sposa molto diverse tra loro entrano in competizione per avere un ruolo di primo piano nell’organizzazione della cerimonia dando origine ad una serie di piccole ed esilaranti catastrofi. Come riuscire a far prevalere l’interesse della sposa piuttosto che il nostro ego? E come gestire al meglio i rapporti con le altre persone coinvolte nei preparativi anche se non c’è feeling?
“La sposa, di solito, chiede aiuto non solo alle amiche più care (cugine, sorelle che siano), ma anche a quelle che hanno buon gusto estetico e capacità decisionali migliori delle sue. Questo porta a dover decidere in tante persone ed andare d’accordo con gli altri, in queste occasioni, è sempre difficile, i gusti sono diversi e, a volte, sembra che l’importante sia averla vinta, piuttosto che riuscire a ragionare sul perché di una determinata scelta. Accade che gli interessi della sposa cadano in secondo piano, a scapito della buona riuscita del matrimonio stesso. Per non parlare dello stress che spesso la sposa deve vivere a causa delle incomprensioni che nascono tra i vari improvvisati organizzatori. Se tra questi ultimi vi sono delle amiche vere e sincere credo che si farà di tutto per non mettere in difficoltà la sposa, anche a costo di dover soccombere alle decisioni dei più prepotenti: basterebbe avere non solo affetto sincero e rispetto per l’amica che sta per sposarsi, ma anche tanto buon senso per non cadere nella trappola della competizione”.
La scelta del testimone è spesso una “prova del fuoco” per alcune amicizie. Come affrontare delusioni in tal senso? E come può invece la sposa gestire una situazione spinosa che rischia di generare incomprensioni?
“La scelta del testimone è causa di lunghe e animate discussioni con i propri parenti e amici. Scegliere tra tante amiche o amici, fratelli, cugini diventa un momento delicato per gli sposi. Tanto è vero che molti preferiscono scegliere un fratello o una sorella, sempre che ce l’abbiano, per evitare fraintendimenti. Essere sicuri di diventare la testimone della sposa e poi scoprire di non essere state prescelte, certo, è una bella delusione. Sicuramente, per l’amica delusa fare finta di niente non è proprio facile, sapere di essere stata la seconda scelta e non la prima, oppure di essere stata preferita alla collega d’ufficio che si conosce da poco… insomma è un bell’affronto. Neanche per la sposa sarà facile comunicare la notizia all’amica delusa ma, in un modo o nell’altro, dovrà affrontarla, spiegandole che questo non vuol dire che non la considera importante. Ci sono dei momenti della vita che ci si sente legati a qualcuno più che ad altri, senza sapere il perché, oppure per diverse coincidenze lo si frequenta di più. Credo che queste siano delle buone spiegazioni da poter dare ad un’amica amareggiata. L’importante è non ignorare il suo dolore e la sua delusione, se si è veramente amiche le incomprensioni si superano, per poter vivere anche più serenamente il giorno del proprio matrimonio”.
Se la futura sposa è concentrata solo sull’imminente cerimonia e non ha più tempo o voglia di dare spazio ai problemi delle amiche, c’è un modo per farle capire che il matrimonio non è una priorità del mondo intero e che si possono (giustamente) avere altri pensieri?
“Come si può dire ad una futura sposa che in testa non ha che modelli di abiti bianchi, colore delle tovaglie da cerimonia, qualità dei fiori per la chiesa, prototipi di partecipazioni, numero di invitati e che non trova cinque minuti da dedicare alla sua migliore amica, che quest’ultima sta vivendo un momento di difficoltà? Non le si può dire nulla. La sposa vive quei giorni come se al mondo non ci fossero guerre, carestie e come se tutti non aspettassero altro che il giorno del suo matrimonio arrivi. Come si può biasimarla? Le amiche, forse, potranno attendere che quel giorno passi, magari sperando che tra un fioraio e una tipografia, la sposa si accorga che al mondo non esiste solo lei”.
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Dipendenza Affettiva
Dipendenza Affettiva
Articolo tratto da www.benessere.com
L’amore, nelle sue diverse forme di attaccamento e nelle sue manifestazioni più positive e più sane, rappresenta una importante capacità e, al contempo, un naturale e profondo bisogno di ogni essere umano. Talvolta, tuttavia, la frustrazione o l’assenza di esperienze serene di questo sentimento umano, frequenti nell’attuale società ricca di rapporti instabili, possono generare un disconoscimento o una negazione di questo bisogno, che rappresenta invece un importante ingrediente di un sano sviluppo psicofisico e di una buona salute mentale e fisica nella vita adulta. Quando un rapporto affettivo diventa un “legame che stringe” o, ancor peggio, “dolorosa ossessione” in cui si altera stabilmente quel necessario equilibrio tra il “dare” e il “ricevere”, l’amore può trasformarsi in un’abitudine a soffrire fino a divenire una vera e propria “dipendenza affettiva”, un disagio psicologico che è in grado di vivere nascosto nell’ombra anche per l’intera vita di una persona, ponendosi tuttavia come la radice di un costante dolore e alimentando spesso altre gravi problematiche psicologiche, fisiche e relazionali.
Mal d’amore, intossicazione d’amore e droga d’amore
Sebbene alcuni autori utilizzino i termini di “mal d’amore”, “intossicazione d’amore” (o “intossicazione psicologica”) e “Mal d’amore” è un termine generico che indica una sofferenza che può essere legata ad uno stato affettivo e di interesse verso un “oggetto d’amore” non disponibile o di cui non si conosce ancora la responsività o, infine, di cui non si conoscono alcune caratteristiche che sono alla base di fiducia, stabilità e serenità della vita affettiva. Di conseguenza è possibile che questo stato di malessere sia temporaneamente normale in seguito alla delusione del rifiuto e quindi alla notizia di una non reciprocità che si pone come una ferita narcisistica e come uno smacco all’autostima, ma esso può essere altrettanto consueto (ma non necessario) nella fase iniziale di una relazione, soprattutto in quella più accesa e più passionale dell’innamoramento, prima che il rapporto si stabilizzi intorno ad alcuni “punti sicuri”.“droga d’amore” tutti come sinonimi della “dipendenza affettiva”, in realtà vanno fatte alcune importanti distinzioni al fine di non patologizzare processi che possono essere transitori e perfino normali in alcune fasi della vita di relazione.
Quando si parla invece di “intossicazione d’amore” si fa riferimento ad una tendenza psicologica e comportamentale che può coincidere con la dipendenza affettiva: una condizione relazionale negativa che è caratterizzata da una assenza cronica di reciprocità nella vita affettiva e nelle sue manifestazioni all’interno della coppia, che tende a stressare e a creare nei “donatori d’amore a senso unico” malessere psicologico o fisico piuttosto che benessere e serenità. Tale condizione, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere interrotta per ricercare un nuovo stato di serenità. Qualora ciò risulti impossibile si è soliti parlare di “dipendenza affettiva” o anche di “droga d’amore” .
Riconoscere la Love addiction
L’amore che può essere definito una “droga” è uno stato affettivo che in una coppia normale è destinato a portare alla distruzione della relazione. Ma esso si instaura in “coppie disfunzionali”, ossia in contesti relazionali-affettivi in cui in genere uno dei partner mostra segni di dipendenza verso l’altro e in cui si radica una tendenza ad alimentare questa forma di equilibrio paradossale della coppia fondato sul malessere. In alcuni casi la dipendenza è reciproca e ciò genera una costruzione a due del disagio che si radica in modo ancora più forte e che alimenta più facilmente le distorsioni cognitive che fanno pensare che alcuni comportamenti siano normali e dovuti all’altro.
A partire dalla prospettiva di Giddens a questo problema, possono essere distinte tre principali caratteristiche della “love addiction” , che la connotano come una forma di “dipendenza”.
- La prima di esse è il piacere connesso alla droga d’amore , definito anche ebbrezza , ovvero la sensazione di euforia sperimentata in funzione delle reazioni manifestate dal partner rispetto ai propri comportamenti.
- La seconda caratteristica, la tolleranza , definita anche dose , consiste nel bisogno di aumentare la quantità di tempo da trascorrere in compagnia del partner, riducendo sempre di più il tempo autonomo proprio e dell’altro e i contatti con l’esterno della coppia, un comportamento che sembra alimentato dall’assenza della capacità di mantenere una “presenza interiorizzata” e quindi di rassicurarsi attraverso il pensiero dell’altro nella propria vita (Lerner, 1996). L’assenza della persona da cui si dipende porta pertanto ad uno stato di prostrazione e di disperazione che può essere interrotto solo dalla sua presenza tangibile.
- Infine, l’incapacità a controllare il proprio comportamento , connessa alla perdita dell’Io ossia della capacità critica relativa a sé, alla situazione e all’altro, una riduzione di lucidità che crea vergogna e rimorso e che in taluni momenti viene sostituita da una temporanea lucidità, cui segue un senso di prostrante sconfitta e una ricaduta, spesso più profonda che mai, nella dipendenza che fa sentire più imminenti di prima i propri bisogni legati all’altro.
L’amore dipendente , conseguentemente, si mostra con le seguenti caratteristiche:
- è ossessivo e tende a lasciare sempre minori spazi personali;
- è parassitario e basato su continue richieste di assoluta devozione e di rinuncia da parte dell’amato;
Nella dipendenza affettiva esistono 2 elementi distintivi della vita emotiva interiore :
- un bisogno di sicurezza che fa da guida ad ogni comportamento;
- una tendenza a disconoscere e a fare disconoscere all’altro i propri bisogni di ricevere amore , un’attitudine che sembra radicata in un’infanzia in cui ci si è abituati a limitare le proprie aspettative in conseguenza a delle esperienze relazionali precoci inappaganti e frustranti.
Due caratteristiche epidemiologiche importanti della dipendenza affettiva sono:
- l’alta incidenza nella popolazione femminile, al punto da stimare che il fenomeno sia al 99% diffuso in questa fetta della popolazione (Miller, 1994) in molti paesi del mondo;
- la tendenza ad associarsi a disturbi post-traumatici da stress, per cui in genere questa forma di dipendenza si osserva in persone che hanno anche vissuto abusi o maltrattamenti, un aspetto che fa pensare che siano stati tali eventi a far sviluppare forme affettive dipendenti.
Più precisamente, il motivo per cui esiste una grande differenza nella tendenza della dipendenza affettiva a manifestarsi più nelle donne che negli uomini è l’esistenza di un diverso funzionamento psichico tra i due sessi e, in particolare, la presenza di una tendenza degli uomini a reagire diversamente ai traumi subiti rispetto alle donne. Più precisamente, tra gli uomini è più comune la tendenza ad allontanare dalla mente il dolore delle violenze, carenze o prevaricazioni subite attraverso meccanismi di identificazione con l’attore di queste mancanze o aggressioni, un funzionamento che comporta l’assunzione del ruolo precedentemente subito o la manifestazione del bisogno di una “dipendenza”, che non è stata sperimentata positivamente nelle relazioni affettive, attraverso l’abuso di sostanze.
Nelle donne, invece, si tende generalmente a rivivere ciò che si è subito, riproducendo le carenze o le violenze, nel tentativo illusorio di controllarle e di riscattarsi dal passato (Miller D., 1994).
Una delle maggiori studiose di questo tipo di problematica è stata Robin Norwood (1985), conosciuta ad un grande pubblico di lettori proprio per via di diverse opere su questo tema, tra cui la più nota dal titolo “Donne che amano troppo”. Nel suo libro l’autrice sottolinea le caratteristiche familiari, emozionali e le modalità tipiche di pensiero delle donne co-dipendenti.
Tra le peculiarità della storia personale e familiare condivise da chi è coinvolto in un problema di “love addiction” ci sono:
- la provenienza da una famiglia in cui sono stati trascurati, soprattutto nell’età evolutiva, i bisogni emotivi della persona;
- una storia familiare caratterizzata da carenze di affetto autentico che tendono ad essere compensate attraverso una identificazione con il partner, un tentativo di salvare lui/lei che in realtà coincide con un tentativo interiore di salvare se stessi;
- una tendenza a ri-attribuirsi nella propria vita di coppia, più o meno inconsapevolmente, un ruolo simile a quello vissuto con i genitori che si è tentato a lungo di cambiare affettivamente, in modo da poter riprovare a ottenere un cambiamento nelle risposte affettive pressoché inesistenti ricevute nella propria vita;
- l’assenza nell’infanzia della possibilità di sperimentare una sensazione di sicurezza che genera, nel contesto della co-dipendenza, un bisogno di controllare in modo ossessivo la relazione e il partner, che viene nascosto dietro un’apparente tendenza all’aiuto dell’altro.
È importante sottolineare che tutte le persone dipendenti affettivamente possono condividere, realmente o attraverso il proprio vissuto psicologico, tali realtà personali e familiari. Ciò che conta, infatti, è la percezione affettiva e il vissuto emotivo soggettivo conservato nella propria infanzia, anche se qualche volta questo non coincide con la presenza oggettiva di carenze e violenze e quindi con le attenzioni ricordate dai genitori delle persone che manifestano sintomi e conseguenze della dipendenza affettiva.
I pensieri e i vissuti emotivi nella “dipendenza dall’amore” sono principalmente connotati da:
- tendenza a sottovalutare la fatica connessa a ciò che serve ad aiutare la persona amata al punto da raggiungere, senza percepirlo in tempo, livelli elevati di stress psicofisico;
- terrore dell’abbandono che porta a fare cose anche precedentemente impensabili pur di evitare la fine della relazione;
- tendenza ad assumersi abitualmente la responsabilità e le colpe della vita di coppia;
- autostima estremamente bassa e una conseguente convinzione profonda di non meritare la felicità;
- tendenza a nutrirsi di fantasie legate a come potrebbe essere il proprio rapporto di coppia se il partner cambiasse, piuttosto che a basarsi su pensieri legati al rapporto attuale e reale;
- propensione a provare attrazione verso persone con problemi e contemporaneo disinteresse e apatia verso persone gentili, equilibrate, degne di fiducia, che invece suscitano noia.
La Co-dipendenza
Una particolare forma di “dipendenza affettiva” è quella che è stata definita “co-dipendenza” e che è stata inizialmente osservata nei contesti relazionali legati alla vita di coppia di alcolisti o tossicodipendenti. Tale problematica coincide con una condizione multidimensionale che comprende varie forme di sofferenza o annullamento di sé, associati alla focalizzazione delle proprie attenzioni ed energie sui bisogni e comportamenti di un partner dipendente da sostanze o da attività. Il motivo per cui questa forma di dipendenza affettiva è stata inizialmente osservata, paradossalmente non riguardava il benessere di chi ne fosse affetto, bensì l’osservazione della capacità che la co-dipendenza ha di mantenere nello stato patologico quello che viene definito il “paziente designato”, ossia colui che sembra, ma non è, l’unico paziente bisognoso di aiuto in quanto affetto da tossicodipendenza, alcolismo o da altre forme di dipendenza (Norwood R.; 1985).
La co-dipendenza , in realtà, ha in comune con le altre dipendenze affettive quella tendenza a rinunciare a tutti i propri bisogni e desideri, disconoscendoli e negandoli, fino a portare nel partner di alcuni dipendenti, alla strutturazione di un “falso Sé” e quindi di una “falsa vita”, una realtà fatta di scelte che non rispondono ai propri bisogni interiori e che corrisponde ad una condizione denominata “malattia del Sé perduto” (Whitfield, 1997). La conseguenza di tutto ciò spesso è il raggiungimento di una debolezza dell’Io nella persona che manifesta co-dipendenza, un Io che diviene vulnerabile e che sopravvive attraverso la tendenza progressiva a cercare di dimostrare la sua forza e a nutrire l’autostima in modo vicario, cioè attraverso il controllo delle funzioni psichiche del partner dipendente.
Al fine di individuare i tratti distintivi del disturbo co-dipendente di personalità si può fare riferimento ai quattro criteri di Cermak (1986) che possono essere riassunti come segue:
- Tendenza ad investire continuamente la propria autostima nel controllo di sé e degli altri, benché vengano sperimentate conseguenze negative;
- Propensione ad assumersi responsabilità altrui o di situazioni non controllabili, pur di soddisfare i bisogni del partner, fino a disconoscere i propri;
- Presenza di stati d’ansia e mancata percezione dei confini tra sé e l’altro;
- Abituale coinvolgimento in relazioni con persone con disturbi di personalità, dipendenze, disturbi del controllo degli impulsi o co-dipendenti.
È importante completare il quadro sintomatologico della co-dipendenza, sottolineando che alle precedenti caratteristiche possono associarsi alcuni dei seguenti sintomi secondari:
- depressione;
- comportamenti ossessivi e fissazione del pensiero;
- abuso di sostanze o di alimenti (in particolare di dolci);
- abusi fisici o sessuali nella propria storia attuale o passata;
- tendenza a non chiedere aiuto e a non riconoscere per lungo tempo il problema;
- insonnia.
Dalle catene al legame interiore
Il principale problema nella risoluzione delle dipendenze affettive è certamentel’ammissione di avere un problema. Esistono, infatti dei confini estremamente sottili tra ciò che in una coppia è normale e ciò che, nell’abitudine cronica, diviene dipendenza. La difficoltà nell’individuazione del problema risiede anche nei modelli di amore che, come si è detto, una persona affettivamente dipendente conserva nella propria memoria e che fanno ritenere determinati abusi e sacrifici di sé come “normali” in nome dell’amore.
Spesso, paradossalmente, è la “speranza” che fa sopravvivere il problema e che tende a cronicizzarlo: la speranza in un cambiamento impossibile, soprattutto in un contesto relazionale in cui si sono consolidati, e persino pietrificati, dei ruoli e dei copioni da cui è, più o meno, impossibile uscire. Così, paradossalmente, l’inizio del cambiamento arriva quando si raggiunge il fondo e si sperimenta la disperazione, che rappresenta la possibilità di sotterrare le illusioni che hanno nutrito a lungo il rapporto patologico.
Ci si può avvalere del supporto psicologico individuale, a volte può essere necessaria una psicoterapia, ma ciò che è certamente utile per velocizzare e stabilizzare i miglioramenti è il confronto in gruppo tra persone che vivono lo stesso problema perché ciò consente di prendere un impegno con gli altri, davanti agli altri e di cominciare a riconoscere le distorsioni della realtà, grazie alle somiglianze della propria vita con la vita altrui che consentono di vincere le difese che non permettono di vedere la verità sulla propria storia personale. Gli altri del gruppo diventano importanti specchi e insieme, si possono ritrovare la voglia, le motivazioni e le possibilità per uscire da relazioni tossiche e spesso anche molto pericolose che, in alcuni casi, sono le fondamenta della propria infelicità.
http://www.benessere.com/psicologia/arg00/dipendenza_affettiva.htm Consiglio per maggiori chiarimenti, la visione di questo video: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-c4c87eff-8bb3-4cbd-8e36-3cae6a4b3867.html
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Disturbo bipolare
DISTURBO BIPOLARE, SEMPRE PIÙ DA VIP
Articolo tratto da http://www.medicina-benessere.com
La malattia bipolare è una patologia concreta e molto grave, in cui il paziente alterna umoralità euforiche a momenti di grave depressione:
il vero paziente affetto da malattie bipolare vive quindi il disagio di un’instabilità emotiva che gli rende difficile vivere normalmente
e con serenità, è assistito da personale medico e in genere tenuto sotto controllo da terapia farmacologica adeguata.
Gli stadi di euforia della malattia bipolare sono caratterizzati da megalomanie, slanci affettivi incontrollati, generosità economica eccessiva, un’energia che porta i malati a non mangiare e dormire per giorni, a sentire voci e a parlare quasi ininterrottamente. Gli stati di depressione durano lo stesso molto tempo, sono caratterizzati da totale apatia, prostrazione, pianto incontrollato e frequente, manie persecutorie o suicide.
Tuttavia sembra che sempre più persone perfettamente sane giochino a emulare questo grave disturbo psicologico, con l’effetto di ridicolizzare la malattia bipolare e anche chi ne soffre. Sembra infatti che in seguito alle confessioni di alcune celebrità tra cui Mel Gibson e Robbie Williams (persone che, lungi dal pensare che la propria umoralità sia una conseguenza dell’abuso di alcol e droghe, si dichiarano affette da malattia bipolare) il disturbo bipolare sia diventato di moda.
Con il risultato di fare migliaia e migliaia di adepti, quasi che una malattia psicologica sia sinonimo di creatività, personalità, maggiore sensibilità o intelligenza. Tanto che non ci si stupisce da quante persone si dichiarano affette da malattia bipolare senza esserlo davvero: così, per gioco, o perché ci si sente un po’ giù e vantarsi dei propri stati d’animo è diventato cool.
Esiste così un gruppo su facebook e molti personal blog in cui gli autori parlano con tranquillità di bipolarismo, e chiedono in giro farmaci per curarsi.
Tanto che in Inghilterra due psichiatri del servizio sanitario nazionale hanno persino lanciato un clamoroso allarme su quanti falsi malati confondano un’umoralità normale con la malattia bipolare. L’idea è che l’auto-diagnosi sia sempre più una mistificazione della realtà della vita del paziente e sempre più un abbaglio che confonde gli operatori, fa perdere tempo alle persone di competenza e prende in giro chi invece soffre sul serio.
- Pubblicato il Articoli, Psicologia
Resilienza psicologica
LA FORZA NELLA SCONFITTA: LA RESILIENZA
Articolo tratto da http://www.medicina-benessere.com
La vita e le esperienze non si scelgono, ma il modo di affrontarle imparando dagli errori è possibile. Si chiama resilienza ed è un atteggiamento mentale, favorevole alle avveristà della vita, perchè è la capacità dell’uomo di affrontare e superare i momenti difficili, di superarli e di uscirne rinforzato e addirittura trasformato positivamente. Ecco come imparare a diventare persone resilienti e vedere la vita con occhi diversi.
Una parola per molti significati che vanno dall’ingegneria, alla psicologia e a diversi aspetti della salute psicolo
gica dell’uomo. Si dice “resilienza” e sta per riadattamento ai mille cambiamenti che la vita ci propone e che spesso possono portarci ad attraversare momenti di grande infelicità e sofferenza. Un noto motto diceva: “barcollo ma non mollo”. la teoria psicologica e gli esercizi mentali relativi alla resilienza ci aiutano a capire come fare.
Lo stretto legame tra la parola “resilienza” e psicologia nasce dalla sua etimologia e dalle diverse applicazioni in campo ingegneristico e fisico dello stesso termine. Tutte queste sovrapposizioni infatti dicono che resilienza sta per: capacità di resistere ad urti e pressioni, negatività e traumi di ogni genere, ma anche capacità di adattamento, elasticità, flessibilità, capacità di autoripararsi dopo un danno, recupero dell’equilibrio e dello stato di salute. Insomma, non c’è parola come resilienza che indichi qualcosa di più positivo e propositivo. Per questo la psicologia intende per resilienza “non solo la capacità di opporsi alle pressioni dell’ambiente, ma una dinamica positiva, una capacità di andare avanti, non si limita a una resistenza, ma permette la costruzione, anzi la ricostruzione di un percorso di vita” (Stefan Vanistendael, 2000). Così come il nostro sistema immunitario è in grado autonomamente di difendersi e contrastare gli attacchi dei patogeni esterni, così la nostra mente e la nostra forza emotiva può essere allenata a resistere ai colpi della vita, alle prove e alle delusioni. Il vero segreto della resilienza infatti non è tanto saper ottenere i risultati prefissati, ma iniziare a trasformare un’esperienza dolorosa in apprendimento, utile al miglioramento della qualità di vita, al raggiungimento dei propri obiettivi e all’organizzazione di un percorso autonomo e soddisfacente. L’azione della resilienza può essere paragonata al sistema immunitario con cui il nostro organismo risponde alle aggressioni dei batteri.
Se non possiamo fare a meno di provare dolore, assistere alle sconfitte nel nostro percorso professionale e personale, vivere momenti di contrasto e depressione, allora perchè non utilizzarli a nostro vantaggio? C’è chi nasce con determinate propensioni caratteriali favorevoli ad una visione resiliente, sono gli ottimisti, quelli che vedono il bicchiere mezzo pieno e che dopo una sconfitta riescono ad alzarsi in piedi e a vincere. Ma la resilienza si può anche apprendere con il tempo. Gli individui resilienti sono coloro che hanno trovato in se stessi, nelle relazioni umane, nei contesti di vita gli elementi e la forza per superare le avversità. Allora perchè non iniziare già da ora a vedere la propria vita con uno spirito adattivo diverso e molto più produttivo? Un percorso di resilienza implica una funzione psichica che si modifica nel tempo in rapporto con l’esperienza, i vissuti e, soprattutto, con il modificarsi dei meccanismi mentali che la sottendono. Proprio per questo troviamo capacità resilienti di tipo istintivo, caratteristico dei primi anni di vita quando i meccanismi mentali sono dominati da egocentrismo e onnipotenza; affettivo, che rispecchia la maturazione affettiva, il senso dei valori, il senso di sé e la socializzazione; cognitivo, quando il soggetto può utilizzare le capacità intellettive simbolico-razionali. Come capacità che può essere appresa la resilienza è strettamente connessa al ripristino della qualità degli ambienti di vita, in particolare i contesti educativi e trova la sua migliore applicazione in ambito comunitario nell’analisi dei contesti sociali successivi a gravi catastrofi di tipo naturale o dovute all’azione dell’uomo quali, ad esempio, attentati terroristici, rivoluzioni o guerre. Se vuoi saperne di più scopri chi sono gli individui resilienti.
Ma come si fa a scoprire e cominciare a beneficiare del proprio spirito resiliente? Come facciamo a diventare individui resilienti? Basta cominciare dalla vita di tutti i giorni, cercando di creare rapporti positivi con le persone e aprendoci a chi vuole avvicinarsi a noi, vedendo le crisi e i momenti difficili come un’opportunità e una sfida, non come una sconfitta, accettando il cambiamento come una parte necessaria e naturale della vita, muovendosi con determinazione e decisione verso i propri obiettivi per raggiungerli, rendendosi disponibili alle esperienze nuove di apprendimento. Se vuoi saperne di piùscopri come diventare un resiliente.
American Psychological Association
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Il cibo che fa bene alla mente
Il cibo che fa bene alla mente
Articolo tratto dal Corriere della sera
Il té può prevenire disturbi mentali Nutrigenomica e cibi protettivi. Sempre più nutrienti danno conferma della loro azione sulle cellule, sul dna delle cellule. Ora è la volta dei disturbi psichici, delle malattie mentali. Antiossidanti e depressione: il cibo della felicità. E in alcuni casi, come per i disturbi bipolari, anche con azione curativa. In inglese “food” fa rima con “mood”, cioè “umore”, e in effetti sono ormai svariati anni che nutrizionisti e psichiatri sostengono un potenziale ruolo della dieta e dei composti contenuti negli alimenti sul benessere della nostra psiche. Nell’ambito dell’ultimo congresso della Società europea di neuro farmacologia a Parigi è stato posto proprio l’accento sull’influenza del menù sulla sfera psichica.
BENESSERE MENTALE – L’apporto di sostanze antiossidanti e il loro ruolo sul benessere mentale. Addirittura in alcuni casi con qualità curative. E’ già noto che il cibo non è solo necessario per mantenerci in vita, per saziarci, per darci energia, per gratificare il palato, ma giocherebbe un ruolo fondamentale anche nel determinare il nostro stato d’animo e le nostre emozioni. Durante il Congresso, Michael Maes ha presentato numerosi dati sperimentali e clinici riguardo l’effetto di antiossidanti nutrizionali sui disturbi del comportamento. Proprio Maes è stato uno dei primi scienziati a dimostrare uno stretto nesso causale tra stress ossidativo a livello cerebrale e depressione. Negli ultimi mesi sono stati, inoltre, pubblicati studi scientifici che dimostrano la capacità di vitamine antiossidanti, quali la vitamina C e la vitamina E, di ridurre i sintomi depressivi. Molti polifenoli vegetali, come ad esempio la curcumina e le catechine del tè, hanno dimostrato anch’essi la capacità di ridurre disturbi del comportamento, e tale azione è stata direttamente associata alle proprietà antiossidanti e antiinfiammatorie di questi composti.
LA DIETA MEDITERRANEA PREVIENE I DISTURBI DEPRESSIVI – «Un paio di anni fa – commenta Giovanni Scapagnini, biochimico clinico dell’università del Molise – lo studio spagnolo Sun, condotto dall’università di Navarra, ha dimostrato come l’aderenza alla dieta mediterranea e la corretta assunzione di sostanze nutrizionali ad azione antiossidante svolga un ruolo benefico nei confronti dell’insorgenza di disturbi depressivi nella popolazione sana». C’è poi un importante lavoro sviluppato nell’ambito dello studio InChianti, condotto in Toscana su una popolazione di circa 1000 anziani, che ha evidenziato come la scarsa assunzione alimentare di carotenoidi e un basso livello ematico di queste sostanze, sia fortemente associato ad un maggior rischio di sviluppare depressione. «Fino ad ora – continua Scapagnini, che collabora all’Osservatorio Aiipa (Associazione italiana industrie prodotti alimentari – Area integratori alimentari) – gli studi scientifici alla base di questa teoria si sono concentrati sulla capacità di alcuni alimenti di modulare il rilascio e la sintesi dei neurotrasmettitori responsabili del tono dell’umore, quali serotonina, dopamina e noradrenalina. A Parigi, quindi, nutrigenomica e alimenti sono stati al centro dell’attenzione. Richiamando elementi già allo studio per altre patologie, come i tumori o le malattie cardiovascolari, come riportato nel libro “Verso la scelta vegetariana” (Giunti editore) che anticipa anche studi sulla prevenzione a tavola di malattie neurodegenerative, quali Alzheimer e Parkinson. Insomma anche l’infiammazione cellulare può essere prevenuta e combattuta a tavola. Con frutta e verdura, chiave del menù Mediterraneo, sempre più al centro delle evidenze scientifiche.
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L’Approccio Gestalt
Psicoterapia – Dott.ssa Fanny Migliaccio psicologa, Roma
Gestalt è una parola tedesca che non ha una traduzione diretta in italiano. Approssimativamente, significa”forma”, “totalità”, “configurazione”.
La forma o configurazione di qualsiasi cosa è comoposta da una “figura” e da uno “sfondo”.
Per esempio, in questo momento, leggendo questo testo si può notare che le lettere costituiscono la figura e gli spazi bianchi lo sfondo; questa situazione può invertirsi e ciò che si trova in figura può passare sullo sfondo e viceversa.
Il fenomeno descritto, che si inscrive nell’universo della percezione, coinvolge anche tutti gli aspetti dell’esperienza.
Ad esempio, situaziozni che ci preoccupano nel momento attuale e che , quindi, si collocano in figura, nel momento in cui il problema o la necessità che le hanno create svaniscono, si trasformano in situazioni poco significative, andandosi a collocare sullo sfondo.
Ciò avviene in special modo quando si riesce a portare a termine o “chiudere” una gestalt: essa si ritira dalla nostra attenzione e va sullo sfondo, e dallo sfondo emerge una nuova gestalt sostenuta da qualche nuova necessità.
Questo ciclo di apertura e chiusura di gestalt è un processo permanente, che si produce durante tutta la nostra esistenza.
L’approccio Gestalt è un approccio olistico, ovvero percepisce gli oggetti e soprattutto gli esseri viventi come totalità.
In Gestalt si dice: “il tutto è più della somma delle parti”.
Tutto esiste e acquisissce un significato all’interno di un contesto specifico; nulla esiste per se stesso, isolato.
L’approccio Gestaltico è essenzialmente un modo di vivere la vita con i piedi ben posti per terra. Non pretende di indirizzare l’individuo verso un cammino esoterico o verso l’illuminazione.
È un modo di stare in questo mondo in forma piena, libera e aperta;
L’approccio gestaltico è anche uno stile di vita, da ciò deriva il fatto che risulti più adeguato denominarlo “approccio”, che è un termine più ampio di “terapia”, che restringe le sue possibilità di applicazione all’ambito clinico.
La consapevolezza
Questo è il concetto base su cui si fonda la Terapia Gestalt.
In poche parole, cosapevolezza significa entrare in contatto, naturale, spontaneo, nel qui ed ora, con ciò che uno è, sente e percepisce.
Questo concetto assomiglia in qualche maniera all’insight, anche se è più ampio;
La Psicoterapia della Gestalt ha come obiettivo di far sì che la persona divenga consapevole della “sua propria forma”, del suo modello e della sua interezza tramite l’integrazione di tutti i suoi aspetti, soprattutto di quelli meno consapevoli.
La terapia è centrata su tentativi di allargare la consapevolezza del sé delle persone, mediante il ricorso alle esperienze passate, ai ricordi, agli stati emotivi, alle sensazioni corporee, ai sogni, affinché l’individuo possa far emergere liberamente tutte le proprie potenzialità rimaste, fino a quel momento, sopite o represse.
Il principio del qui ed ora
è uno dei principi più importanti e fecondi della Terapia Gestalt.
Con il fine di fomentare la coscienza dell’adesso, e facilitare così la consapevolezza, suggeriamo alle persone che comunichino le loro esperienze (parlando) al tempo presente.
La forma più efficace di reintegrare nella personalità le esperienze passate è portarle nel presente, attualizzarle. una specie di concatenazione organizzata di insight.
Una caratteristica fondamentale della psicoterapia della Gestalt consiste quindi nel metodo operativo che si fonda prevalentemente sull’esperienza (anche attraverso l’utilizzo di alcune tecniche particolari), sia nel comprendere i problemi del paziente che nella scoperta ed esplorazione delle possibili soluzioni.
Nella psicoterapia individuale i colloqui si svolgono faccia a faccia; nella terapia di coppia usualmente i partners sono presenti contemporaneamente.
Ogni piccolo cambiamento viene vissuto in terapia come una esperienza viva, dove il paziente ha la possibilità di esplorare le soluzioni ai suoi problemi non solo attraverso comprensioni intellettuali e razionali ma anche grazie ad una comprensione di tipo fenomenologico che include emozioni ed esperienze corporee.
L’aspirazione è che attraverso un coinvolgimento creativo nel processo della Gestalt una persona:
- Impari a riappropriarsi delle sue esperienze, anziché proiettarle sugli altri
- Impari a prendere consapevolezza dei propri bisogni e a sviluppare la capacità di soddisfare se stessa senza prevaricare gli altri
- Arrivi a un contatto più pieno con le proprie sensazioni, imparando ad annusare, gustare, toccare, udire e vedere, assaporare tutti gli aspetti di se stesso
- Faccia esperienza del proprio potere e della propria capacità di autosostegno, anziché piagnucolare, accusare gli altri o inculcare sensi di colpa per ricevere sostegno dall’ambiente
- Diventi sensibile a ciò che lo circonda, indossando allo stesso tempo una corazza nelle situazioni che sono potenzialmente distruttive o nocive
- Impari ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni e delle loro conseguenze
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Binge Eating Disorder
Cos’è il “Binge Eating Disorder” (BED) o “disturbo da Alimentazione Incontrollata ”?![](https://www.psicoterapeutagestalt.com/wp-content/uploads/2011/10/types_bed2.gif)
Dott.ssa Fanny Migliaccio psicologa, Roma
Anche se il binge-eating disorder è il più comune di tutti i disturbi del comportamento alimentare, non è ancora considerato una condizione psichiatrica.
Il Binge Eating Disorder (in italiano sindrome da alimentazione incontrollata) è un disturbo del comportamento
alimentare che solo di recente è stato descritto in modo chiaro ed esaustivo.
Il BED è presente nel 30% circa dei casi di soggetti obesi che richiedono una cura per la loro situazione.
La difficoltà ad inquadrare questa situazione è legata alla definizione di abbuffata e ai fattori che possono favorirne la persistenza. L’abbuffata, così come avviene nella bulimia nervosa, viene definita dalla sensazione di perdita di controllo, dal senso di colpa e dai pensieri negativi che la accompagnano. Nei soggetti BED è frequente la presenza di un quadro psicologico problematico caratterizzato dalla depressione, dall’insoddisfazione corporea e da un comportamento alimentare variamente disturbato. Negli obesi BED i disturbi dell’umore e altri quadri psicopatologici sembrano essere presenti in circa l’80% dei casi.
Criteri diagnostici per il Disturbo da Alimentazione Incontrollata o Binge Eating Disorder (BED) (DSM IV)
1. Episodi ricorrenti di abbuffate compulsive. Un’abbuffata compulsiva è definita dai due caratteri seguenti (entrambi necessari).
a. Mangiare,in un periodo di tempo circoscritto (per esempio nell’arco di due ore), una quantità di cibo che è indiscutibilmente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso periodo di tempo in circostanze simili.
b. Senso di mancanza di controllo sull’atto di mangiare durante l’episodio (per esempio sentire di non poter smettere di mangiare o di non poter controllare cosa o quanto si sta mangiando).
2. Gli episodi di abbuffate compulsive sono associati ad almeno tre dei seguenti caratteri:
– Mangiare molto più rapidamente del normale;
– Mangiare fino ad avere una sensazione dolorosa di troppo pieno;
– Mangiare grandi quantità di cibo pur non sentendo fame;
– Mangiare in solitudine a causa dell’imbarazzo per le quantità di cibo ingerite;
– Provare disgusto di sé, depressione o intensa colpa dopo aver mangiato troppo.
3. Le abbuffate compulsive suscitano sofferenza e disagio.
4. Le abbuffate compulsive avvengono, in media, almeno due giorni la settimana per almeno sei mesi.
Il disturbo non si riscontra soltanto nel corso di anoressia o di bulimia nervosa.
Le cause – Ci sono solo ipotesi. La più gettonata è che il Binge Eating Disorder sia legato a uno stato depressivo del soggetto anche se non è chiaro se sia la depressione a innescare il Binge Eating Disorder o il contrario. Di certo un umore negativo (rabbia, frustrazione, noia ecc.) facilita la patologia. Capire le cause è molto importante perché a seconda della causa si può scegliere il terapeuta adatto. Dal punto di vista psicologico il soggetto affetto da Binge Eating Disorder avrebbe una scarsa autostima di sé e l’abbuffata non sarebbe che il modo per riempire il proprio vuoto interiore.
Gli alimenti diventano una sorta di valvola di sfogo per cercare di gestire ansia, rabbia, frustrazione, ma il consumo compulsivo porta soltanto ulteriore incremento di tali emozioni, altri disturbi psicologici come la depressione e/o disturbi del sonno, così come l’aumento del peso corporeo, insieme ad una serie di patologie fisiologicamente rischiose, come ad esempio l’Obesità, il diabete, l’ipertensione arteriosa o le neoplasie.
Risultano inoltre presenti eccessive preoccupazioni per il proprio aspetto fisico e per il proprio peso, così come problematiche sociali, noia, solitudine e tristezza.
La dinamica che si crea è quella del continuo alternarsi di abbuffata-digiuno e di discontrollo-controllo, dove, in un circolo sempre più stretto e negativo, lo sforzo di astinenza dal cibo provoca la successiva perdita di controllo, al quale poi si tenta di rimediare nuovamente con del digiuno.
Il Binge Eating Disorder si ritrova più frequentemente negli adulti tra i 30 e i 40 anni e in modo sostanzialmente uguale nei due sessi; inoltre le persone afflitte da tale disturbo presentano spesso situazioni di sovrappeso o di obesità e fluttuazioni di peso corporeo rilevanti (anche più di 10 chili in 3-4 settimane).
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Quei chili di troppo che ci rassicurano!
Psicologia –Articolo tratto da Perdipeso System
La perdita di peso può anche essere percepita come minaccia alla propria salute, ossia, come qualcosa di spiacevole, che crea ansia anche nelle persone obese o in soprappeso.
Questo, per noi occidentali, che viviamo in paesi ricchi di cibo, è un sentimento che può sorprendere o sembrare fuori luogo, ma è perfettamente normale e bisogna farci i conti.
Sicuramente il cibo abbonda, ma la nostra società impone corpi da “affamati”, donne bellissime che sembrano non mangiare mai.
Basta citare i racconti degli immigrati dal terzo mondo, che arrivati in altri paesi, venivano colti da una fissazione incontrollabile per il cibo, come unica compensazione e rassicurazione sul fatto di aver lasciato alle spalle tutto il loro mondo.
Sembra strano, ma la paura della morte per fame è scritta nel nostro DNA e non ci abbandona, al punto tale che esistono persone che conservano la stabilità e l’equilibrio mentale, mantenendo qualche chilo in più.
Per queste persone che non hanno superato e non sono consapevoli di tale paura non è la dieta ipocalorica la soluzione corretta. Anzi risulterebbe ancora più dannosa, aumentando questa paura inconscia e facendo ingrassare ulteriormente il soggetto in questione.
Spesso si è raffrontato il soprappeso con le condizioni economiche o con le classi sociali, attribuzione discutibile, ma che rimanda la paura del peso e della fame a sicurezza economica e a stabilità sociale.
Lo satus mentis ed il comportamento a tavola delle nostre nonne, ne sono la conferma: abbondanza di cibo e chili di troppo sono sintomo di ricchezza e benessere.
Pensiamo solo per un attimo all’inizio della guerra del golfo: in Italia furono svuotati, presi d’ assalto i supermercati, eppure razionalmente, in Italia, non si rischiava di morire di fame.
Dunque dobbiamo anche fare i conti con il fatto che l’energia di riserva, il grasso di deposito, ci rassicura contro il più pericoloso nemico dell’uomo : LA FAME.
La morte per fame è ancora oggi, nonostante il progresso, un fantasma sempre presente…
Per contro, incombe paradossalmente, la morte per eccesso di cibo…..
La soluzione per poter combattere tale smarrimento, e tutte le insicurezze connesse al proprio rapporto con il cibo è dunque, razionalizzare e combattere queste paure!
Riconoscerle, conoscersi, ascoltarle, ascoltarsi è il primo passo per poter scendere di peso.
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