Dipendenza Affettiva
Dipendenza Affettiva
Articolo tratto da www.benessere.com
L’amore, nelle sue diverse forme di attaccamento e nelle sue manifestazioni più positive e più sane, rappresenta una importante capacità e, al contempo, un naturale e profondo bisogno di ogni essere umano. Talvolta, tuttavia, la frustrazione o l’assenza di esperienze serene di questo sentimento umano, frequenti nell’attuale società ricca di rapporti instabili, possono generare un disconoscimento o una negazione di questo bisogno, che rappresenta invece un importante ingrediente di un sano sviluppo psicofisico e di una buona salute mentale e fisica nella vita adulta. Quando un rapporto affettivo diventa un “legame che stringe” o, ancor peggio, “dolorosa ossessione” in cui si altera stabilmente quel necessario equilibrio tra il “dare” e il “ricevere”, l’amore può trasformarsi in un’abitudine a soffrire fino a divenire una vera e propria “dipendenza affettiva”, un disagio psicologico che è in grado di vivere nascosto nell’ombra anche per l’intera vita di una persona, ponendosi tuttavia come la radice di un costante dolore e alimentando spesso altre gravi problematiche psicologiche, fisiche e relazionali.
Mal d’amore, intossicazione d’amore e droga d’amore
Sebbene alcuni autori utilizzino i termini di “mal d’amore”, “intossicazione d’amore” (o “intossicazione psicologica”) e “Mal d’amore” è un termine generico che indica una sofferenza che può essere legata ad uno stato affettivo e di interesse verso un “oggetto d’amore” non disponibile o di cui non si conosce ancora la responsività o, infine, di cui non si conoscono alcune caratteristiche che sono alla base di fiducia, stabilità e serenità della vita affettiva. Di conseguenza è possibile che questo stato di malessere sia temporaneamente normale in seguito alla delusione del rifiuto e quindi alla notizia di una non reciprocità che si pone come una ferita narcisistica e come uno smacco all’autostima, ma esso può essere altrettanto consueto (ma non necessario) nella fase iniziale di una relazione, soprattutto in quella più accesa e più passionale dell’innamoramento, prima che il rapporto si stabilizzi intorno ad alcuni “punti sicuri”.“droga d’amore” tutti come sinonimi della “dipendenza affettiva”, in realtà vanno fatte alcune importanti distinzioni al fine di non patologizzare processi che possono essere transitori e perfino normali in alcune fasi della vita di relazione.
Quando si parla invece di “intossicazione d’amore” si fa riferimento ad una tendenza psicologica e comportamentale che può coincidere con la dipendenza affettiva: una condizione relazionale negativa che è caratterizzata da una assenza cronica di reciprocità nella vita affettiva e nelle sue manifestazioni all’interno della coppia, che tende a stressare e a creare nei “donatori d’amore a senso unico” malessere psicologico o fisico piuttosto che benessere e serenità. Tale condizione, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere interrotta per ricercare un nuovo stato di serenità. Qualora ciò risulti impossibile si è soliti parlare di “dipendenza affettiva” o anche di “droga d’amore” .
Riconoscere la Love addiction
L’amore che può essere definito una “droga” è uno stato affettivo che in una coppia normale è destinato a portare alla distruzione della relazione. Ma esso si instaura in “coppie disfunzionali”, ossia in contesti relazionali-affettivi in cui in genere uno dei partner mostra segni di dipendenza verso l’altro e in cui si radica una tendenza ad alimentare questa forma di equilibrio paradossale della coppia fondato sul malessere. In alcuni casi la dipendenza è reciproca e ciò genera una costruzione a due del disagio che si radica in modo ancora più forte e che alimenta più facilmente le distorsioni cognitive che fanno pensare che alcuni comportamenti siano normali e dovuti all’altro.
A partire dalla prospettiva di Giddens a questo problema, possono essere distinte tre principali caratteristiche della “love addiction” , che la connotano come una forma di “dipendenza”.
- La prima di esse è il piacere connesso alla droga d’amore , definito anche ebbrezza , ovvero la sensazione di euforia sperimentata in funzione delle reazioni manifestate dal partner rispetto ai propri comportamenti.
- La seconda caratteristica, la tolleranza , definita anche dose , consiste nel bisogno di aumentare la quantità di tempo da trascorrere in compagnia del partner, riducendo sempre di più il tempo autonomo proprio e dell’altro e i contatti con l’esterno della coppia, un comportamento che sembra alimentato dall’assenza della capacità di mantenere una “presenza interiorizzata” e quindi di rassicurarsi attraverso il pensiero dell’altro nella propria vita (Lerner, 1996). L’assenza della persona da cui si dipende porta pertanto ad uno stato di prostrazione e di disperazione che può essere interrotto solo dalla sua presenza tangibile.
- Infine, l’incapacità a controllare il proprio comportamento , connessa alla perdita dell’Io ossia della capacità critica relativa a sé, alla situazione e all’altro, una riduzione di lucidità che crea vergogna e rimorso e che in taluni momenti viene sostituita da una temporanea lucidità, cui segue un senso di prostrante sconfitta e una ricaduta, spesso più profonda che mai, nella dipendenza che fa sentire più imminenti di prima i propri bisogni legati all’altro.
L’amore dipendente , conseguentemente, si mostra con le seguenti caratteristiche:
- è ossessivo e tende a lasciare sempre minori spazi personali;
- è parassitario e basato su continue richieste di assoluta devozione e di rinuncia da parte dell’amato;
Nella dipendenza affettiva esistono 2 elementi distintivi della vita emotiva interiore :
- un bisogno di sicurezza che fa da guida ad ogni comportamento;
- una tendenza a disconoscere e a fare disconoscere all’altro i propri bisogni di ricevere amore , un’attitudine che sembra radicata in un’infanzia in cui ci si è abituati a limitare le proprie aspettative in conseguenza a delle esperienze relazionali precoci inappaganti e frustranti.
Due caratteristiche epidemiologiche importanti della dipendenza affettiva sono:
- l’alta incidenza nella popolazione femminile, al punto da stimare che il fenomeno sia al 99% diffuso in questa fetta della popolazione (Miller, 1994) in molti paesi del mondo;
- la tendenza ad associarsi a disturbi post-traumatici da stress, per cui in genere questa forma di dipendenza si osserva in persone che hanno anche vissuto abusi o maltrattamenti, un aspetto che fa pensare che siano stati tali eventi a far sviluppare forme affettive dipendenti.
Più precisamente, il motivo per cui esiste una grande differenza nella tendenza della dipendenza affettiva a manifestarsi più nelle donne che negli uomini è l’esistenza di un diverso funzionamento psichico tra i due sessi e, in particolare, la presenza di una tendenza degli uomini a reagire diversamente ai traumi subiti rispetto alle donne. Più precisamente, tra gli uomini è più comune la tendenza ad allontanare dalla mente il dolore delle violenze, carenze o prevaricazioni subite attraverso meccanismi di identificazione con l’attore di queste mancanze o aggressioni, un funzionamento che comporta l’assunzione del ruolo precedentemente subito o la manifestazione del bisogno di una “dipendenza”, che non è stata sperimentata positivamente nelle relazioni affettive, attraverso l’abuso di sostanze.
Nelle donne, invece, si tende generalmente a rivivere ciò che si è subito, riproducendo le carenze o le violenze, nel tentativo illusorio di controllarle e di riscattarsi dal passato (Miller D., 1994).
Una delle maggiori studiose di questo tipo di problematica è stata Robin Norwood (1985), conosciuta ad un grande pubblico di lettori proprio per via di diverse opere su questo tema, tra cui la più nota dal titolo “Donne che amano troppo”. Nel suo libro l’autrice sottolinea le caratteristiche familiari, emozionali e le modalità tipiche di pensiero delle donne co-dipendenti.
Tra le peculiarità della storia personale e familiare condivise da chi è coinvolto in un problema di “love addiction” ci sono:
- la provenienza da una famiglia in cui sono stati trascurati, soprattutto nell’età evolutiva, i bisogni emotivi della persona;
- una storia familiare caratterizzata da carenze di affetto autentico che tendono ad essere compensate attraverso una identificazione con il partner, un tentativo di salvare lui/lei che in realtà coincide con un tentativo interiore di salvare se stessi;
- una tendenza a ri-attribuirsi nella propria vita di coppia, più o meno inconsapevolmente, un ruolo simile a quello vissuto con i genitori che si è tentato a lungo di cambiare affettivamente, in modo da poter riprovare a ottenere un cambiamento nelle risposte affettive pressoché inesistenti ricevute nella propria vita;
- l’assenza nell’infanzia della possibilità di sperimentare una sensazione di sicurezza che genera, nel contesto della co-dipendenza, un bisogno di controllare in modo ossessivo la relazione e il partner, che viene nascosto dietro un’apparente tendenza all’aiuto dell’altro.
È importante sottolineare che tutte le persone dipendenti affettivamente possono condividere, realmente o attraverso il proprio vissuto psicologico, tali realtà personali e familiari. Ciò che conta, infatti, è la percezione affettiva e il vissuto emotivo soggettivo conservato nella propria infanzia, anche se qualche volta questo non coincide con la presenza oggettiva di carenze e violenze e quindi con le attenzioni ricordate dai genitori delle persone che manifestano sintomi e conseguenze della dipendenza affettiva.
I pensieri e i vissuti emotivi nella “dipendenza dall’amore” sono principalmente connotati da:
- tendenza a sottovalutare la fatica connessa a ciò che serve ad aiutare la persona amata al punto da raggiungere, senza percepirlo in tempo, livelli elevati di stress psicofisico;
- terrore dell’abbandono che porta a fare cose anche precedentemente impensabili pur di evitare la fine della relazione;
- tendenza ad assumersi abitualmente la responsabilità e le colpe della vita di coppia;
- autostima estremamente bassa e una conseguente convinzione profonda di non meritare la felicità;
- tendenza a nutrirsi di fantasie legate a come potrebbe essere il proprio rapporto di coppia se il partner cambiasse, piuttosto che a basarsi su pensieri legati al rapporto attuale e reale;
- propensione a provare attrazione verso persone con problemi e contemporaneo disinteresse e apatia verso persone gentili, equilibrate, degne di fiducia, che invece suscitano noia.
La Co-dipendenza
Una particolare forma di “dipendenza affettiva” è quella che è stata definita “co-dipendenza” e che è stata inizialmente osservata nei contesti relazionali legati alla vita di coppia di alcolisti o tossicodipendenti. Tale problematica coincide con una condizione multidimensionale che comprende varie forme di sofferenza o annullamento di sé, associati alla focalizzazione delle proprie attenzioni ed energie sui bisogni e comportamenti di un partner dipendente da sostanze o da attività. Il motivo per cui questa forma di dipendenza affettiva è stata inizialmente osservata, paradossalmente non riguardava il benessere di chi ne fosse affetto, bensì l’osservazione della capacità che la co-dipendenza ha di mantenere nello stato patologico quello che viene definito il “paziente designato”, ossia colui che sembra, ma non è, l’unico paziente bisognoso di aiuto in quanto affetto da tossicodipendenza, alcolismo o da altre forme di dipendenza (Norwood R.; 1985).
La co-dipendenza , in realtà, ha in comune con le altre dipendenze affettive quella tendenza a rinunciare a tutti i propri bisogni e desideri, disconoscendoli e negandoli, fino a portare nel partner di alcuni dipendenti, alla strutturazione di un “falso Sé” e quindi di una “falsa vita”, una realtà fatta di scelte che non rispondono ai propri bisogni interiori e che corrisponde ad una condizione denominata “malattia del Sé perduto” (Whitfield, 1997). La conseguenza di tutto ciò spesso è il raggiungimento di una debolezza dell’Io nella persona che manifesta co-dipendenza, un Io che diviene vulnerabile e che sopravvive attraverso la tendenza progressiva a cercare di dimostrare la sua forza e a nutrire l’autostima in modo vicario, cioè attraverso il controllo delle funzioni psichiche del partner dipendente.
Al fine di individuare i tratti distintivi del disturbo co-dipendente di personalità si può fare riferimento ai quattro criteri di Cermak (1986) che possono essere riassunti come segue:
- Tendenza ad investire continuamente la propria autostima nel controllo di sé e degli altri, benché vengano sperimentate conseguenze negative;
- Propensione ad assumersi responsabilità altrui o di situazioni non controllabili, pur di soddisfare i bisogni del partner, fino a disconoscere i propri;
- Presenza di stati d’ansia e mancata percezione dei confini tra sé e l’altro;
- Abituale coinvolgimento in relazioni con persone con disturbi di personalità, dipendenze, disturbi del controllo degli impulsi o co-dipendenti.
È importante completare il quadro sintomatologico della co-dipendenza, sottolineando che alle precedenti caratteristiche possono associarsi alcuni dei seguenti sintomi secondari:
- depressione;
- comportamenti ossessivi e fissazione del pensiero;
- abuso di sostanze o di alimenti (in particolare di dolci);
- abusi fisici o sessuali nella propria storia attuale o passata;
- tendenza a non chiedere aiuto e a non riconoscere per lungo tempo il problema;
- insonnia.
Dalle catene al legame interiore
Il principale problema nella risoluzione delle dipendenze affettive è certamentel’ammissione di avere un problema. Esistono, infatti dei confini estremamente sottili tra ciò che in una coppia è normale e ciò che, nell’abitudine cronica, diviene dipendenza. La difficoltà nell’individuazione del problema risiede anche nei modelli di amore che, come si è detto, una persona affettivamente dipendente conserva nella propria memoria e che fanno ritenere determinati abusi e sacrifici di sé come “normali” in nome dell’amore.
Spesso, paradossalmente, è la “speranza” che fa sopravvivere il problema e che tende a cronicizzarlo: la speranza in un cambiamento impossibile, soprattutto in un contesto relazionale in cui si sono consolidati, e persino pietrificati, dei ruoli e dei copioni da cui è, più o meno, impossibile uscire. Così, paradossalmente, l’inizio del cambiamento arriva quando si raggiunge il fondo e si sperimenta la disperazione, che rappresenta la possibilità di sotterrare le illusioni che hanno nutrito a lungo il rapporto patologico.
Ci si può avvalere del supporto psicologico individuale, a volte può essere necessaria una psicoterapia, ma ciò che è certamente utile per velocizzare e stabilizzare i miglioramenti è il confronto in gruppo tra persone che vivono lo stesso problema perché ciò consente di prendere un impegno con gli altri, davanti agli altri e di cominciare a riconoscere le distorsioni della realtà, grazie alle somiglianze della propria vita con la vita altrui che consentono di vincere le difese che non permettono di vedere la verità sulla propria storia personale. Gli altri del gruppo diventano importanti specchi e insieme, si possono ritrovare la voglia, le motivazioni e le possibilità per uscire da relazioni tossiche e spesso anche molto pericolose che, in alcuni casi, sono le fondamenta della propria infelicità.
http://www.benessere.com/psicologia/arg00/dipendenza_affettiva.htm Consiglio per maggiori chiarimenti, la visione di questo video: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-c4c87eff-8bb3-4cbd-8e36-3cae6a4b3867.html
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Resilienza psicologica
LA FORZA NELLA SCONFITTA: LA RESILIENZA
Articolo tratto da http://www.medicina-benessere.com
La vita e le esperienze non si scelgono, ma il modo di affrontarle imparando dagli errori è possibile. Si chiama resilienza ed è un atteggiamento mentale, favorevole alle avveristà della vita, perchè è la capacità dell’uomo di affrontare e superare i momenti difficili, di superarli e di uscirne rinforzato e addirittura trasformato positivamente. Ecco come imparare a diventare persone resilienti e vedere la vita con occhi diversi.
Una parola per molti significati che vanno dall’ingegneria, alla psicologia e a diversi aspetti della salute psicolo
gica dell’uomo. Si dice “resilienza” e sta per riadattamento ai mille cambiamenti che la vita ci propone e che spesso possono portarci ad attraversare momenti di grande infelicità e sofferenza. Un noto motto diceva: “barcollo ma non mollo”. la teoria psicologica e gli esercizi mentali relativi alla resilienza ci aiutano a capire come fare.
Lo stretto legame tra la parola “resilienza” e psicologia nasce dalla sua etimologia e dalle diverse applicazioni in campo ingegneristico e fisico dello stesso termine. Tutte queste sovrapposizioni infatti dicono che resilienza sta per: capacità di resistere ad urti e pressioni, negatività e traumi di ogni genere, ma anche capacità di adattamento, elasticità, flessibilità, capacità di autoripararsi dopo un danno, recupero dell’equilibrio e dello stato di salute. Insomma, non c’è parola come resilienza che indichi qualcosa di più positivo e propositivo. Per questo la psicologia intende per resilienza “non solo la capacità di opporsi alle pressioni dell’ambiente, ma una dinamica positiva, una capacità di andare avanti, non si limita a una resistenza, ma permette la costruzione, anzi la ricostruzione di un percorso di vita” (Stefan Vanistendael, 2000). Così come il nostro sistema immunitario è in grado autonomamente di difendersi e contrastare gli attacchi dei patogeni esterni, così la nostra mente e la nostra forza emotiva può essere allenata a resistere ai colpi della vita, alle prove e alle delusioni. Il vero segreto della resilienza infatti non è tanto saper ottenere i risultati prefissati, ma iniziare a trasformare un’esperienza dolorosa in apprendimento, utile al miglioramento della qualità di vita, al raggiungimento dei propri obiettivi e all’organizzazione di un percorso autonomo e soddisfacente. L’azione della resilienza può essere paragonata al sistema immunitario con cui il nostro organismo risponde alle aggressioni dei batteri.
Se non possiamo fare a meno di provare dolore, assistere alle sconfitte nel nostro percorso professionale e personale, vivere momenti di contrasto e depressione, allora perchè non utilizzarli a nostro vantaggio? C’è chi nasce con determinate propensioni caratteriali favorevoli ad una visione resiliente, sono gli ottimisti, quelli che vedono il bicchiere mezzo pieno e che dopo una sconfitta riescono ad alzarsi in piedi e a vincere. Ma la resilienza si può anche apprendere con il tempo. Gli individui resilienti sono coloro che hanno trovato in se stessi, nelle relazioni umane, nei contesti di vita gli elementi e la forza per superare le avversità. Allora perchè non iniziare già da ora a vedere la propria vita con uno spirito adattivo diverso e molto più produttivo? Un percorso di resilienza implica una funzione psichica che si modifica nel tempo in rapporto con l’esperienza, i vissuti e, soprattutto, con il modificarsi dei meccanismi mentali che la sottendono. Proprio per questo troviamo capacità resilienti di tipo istintivo, caratteristico dei primi anni di vita quando i meccanismi mentali sono dominati da egocentrismo e onnipotenza; affettivo, che rispecchia la maturazione affettiva, il senso dei valori, il senso di sé e la socializzazione; cognitivo, quando il soggetto può utilizzare le capacità intellettive simbolico-razionali. Come capacità che può essere appresa la resilienza è strettamente connessa al ripristino della qualità degli ambienti di vita, in particolare i contesti educativi e trova la sua migliore applicazione in ambito comunitario nell’analisi dei contesti sociali successivi a gravi catastrofi di tipo naturale o dovute all’azione dell’uomo quali, ad esempio, attentati terroristici, rivoluzioni o guerre. Se vuoi saperne di più scopri chi sono gli individui resilienti.
Ma come si fa a scoprire e cominciare a beneficiare del proprio spirito resiliente? Come facciamo a diventare individui resilienti? Basta cominciare dalla vita di tutti i giorni, cercando di creare rapporti positivi con le persone e aprendoci a chi vuole avvicinarsi a noi, vedendo le crisi e i momenti difficili come un’opportunità e una sfida, non come una sconfitta, accettando il cambiamento come una parte necessaria e naturale della vita, muovendosi con determinazione e decisione verso i propri obiettivi per raggiungerli, rendendosi disponibili alle esperienze nuove di apprendimento. Se vuoi saperne di piùscopri come diventare un resiliente.
American Psychological Association
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Binge Eating Disorder
Cos’è il “Binge Eating Disorder” (BED) o “disturbo da Alimentazione Incontrollata ”?
Dott.ssa Fanny Migliaccio psicologa, Roma
Anche se il binge-eating disorder è il più comune di tutti i disturbi del comportamento alimentare, non è ancora considerato una condizione psichiatrica.
Il Binge Eating Disorder (in italiano sindrome da alimentazione incontrollata) è un disturbo del comportamento
alimentare che solo di recente è stato descritto in modo chiaro ed esaustivo.
Il BED è presente nel 30% circa dei casi di soggetti obesi che richiedono una cura per la loro situazione.
La difficoltà ad inquadrare questa situazione è legata alla definizione di abbuffata e ai fattori che possono favorirne la persistenza. L’abbuffata, così come avviene nella bulimia nervosa, viene definita dalla sensazione di perdita di controllo, dal senso di colpa e dai pensieri negativi che la accompagnano. Nei soggetti BED è frequente la presenza di un quadro psicologico problematico caratterizzato dalla depressione, dall’insoddisfazione corporea e da un comportamento alimentare variamente disturbato. Negli obesi BED i disturbi dell’umore e altri quadri psicopatologici sembrano essere presenti in circa l’80% dei casi.
Criteri diagnostici per il Disturbo da Alimentazione Incontrollata o Binge Eating Disorder (BED) (DSM IV)
1. Episodi ricorrenti di abbuffate compulsive. Un’abbuffata compulsiva è definita dai due caratteri seguenti (entrambi necessari).
a. Mangiare,in un periodo di tempo circoscritto (per esempio nell’arco di due ore), una quantità di cibo che è indiscutibilmente maggiore di quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso periodo di tempo in circostanze simili.
b. Senso di mancanza di controllo sull’atto di mangiare durante l’episodio (per esempio sentire di non poter smettere di mangiare o di non poter controllare cosa o quanto si sta mangiando).
2. Gli episodi di abbuffate compulsive sono associati ad almeno tre dei seguenti caratteri:
– Mangiare molto più rapidamente del normale;
– Mangiare fino ad avere una sensazione dolorosa di troppo pieno;
– Mangiare grandi quantità di cibo pur non sentendo fame;
– Mangiare in solitudine a causa dell’imbarazzo per le quantità di cibo ingerite;
– Provare disgusto di sé, depressione o intensa colpa dopo aver mangiato troppo.
3. Le abbuffate compulsive suscitano sofferenza e disagio.
4. Le abbuffate compulsive avvengono, in media, almeno due giorni la settimana per almeno sei mesi.
Il disturbo non si riscontra soltanto nel corso di anoressia o di bulimia nervosa.
Le cause – Ci sono solo ipotesi. La più gettonata è che il Binge Eating Disorder sia legato a uno stato depressivo del soggetto anche se non è chiaro se sia la depressione a innescare il Binge Eating Disorder o il contrario. Di certo un umore negativo (rabbia, frustrazione, noia ecc.) facilita la patologia. Capire le cause è molto importante perché a seconda della causa si può scegliere il terapeuta adatto. Dal punto di vista psicologico il soggetto affetto da Binge Eating Disorder avrebbe una scarsa autostima di sé e l’abbuffata non sarebbe che il modo per riempire il proprio vuoto interiore.
Gli alimenti diventano una sorta di valvola di sfogo per cercare di gestire ansia, rabbia, frustrazione, ma il consumo compulsivo porta soltanto ulteriore incremento di tali emozioni, altri disturbi psicologici come la depressione e/o disturbi del sonno, così come l’aumento del peso corporeo, insieme ad una serie di patologie fisiologicamente rischiose, come ad esempio l’Obesità, il diabete, l’ipertensione arteriosa o le neoplasie.
Risultano inoltre presenti eccessive preoccupazioni per il proprio aspetto fisico e per il proprio peso, così come problematiche sociali, noia, solitudine e tristezza.
La dinamica che si crea è quella del continuo alternarsi di abbuffata-digiuno e di discontrollo-controllo, dove, in un circolo sempre più stretto e negativo, lo sforzo di astinenza dal cibo provoca la successiva perdita di controllo, al quale poi si tenta di rimediare nuovamente con del digiuno.
Il Binge Eating Disorder si ritrova più frequentemente negli adulti tra i 30 e i 40 anni e in modo sostanzialmente uguale nei due sessi; inoltre le persone afflitte da tale disturbo presentano spesso situazioni di sovrappeso o di obesità e fluttuazioni di peso corporeo rilevanti (anche più di 10 chili in 3-4 settimane).
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Quei chili di troppo che ci rassicurano!
Psicologia –Articolo tratto da Perdipeso System
La perdita di peso può anche essere percepita come minaccia alla propria salute, ossia, come qualcosa di spiacevole, che crea ansia anche nelle persone obese o in soprappeso.
Questo, per noi occidentali, che viviamo in paesi ricchi di cibo, è un sentimento che può sorprendere o sembrare fuori luogo, ma è perfettamente normale e bisogna farci i conti.
Sicuramente il cibo abbonda, ma la nostra società impone corpi da “affamati”, donne bellissime che sembrano non mangiare mai.
Basta citare i racconti degli immigrati dal terzo mondo, che arrivati in altri paesi, venivano colti da una fissazione incontrollabile per il cibo, come unica compensazione e rassicurazione sul fatto di aver lasciato alle spalle tutto il loro mondo.
Sembra strano, ma la paura della morte per fame è scritta nel nostro DNA e non ci abbandona, al punto tale che esistono persone che conservano la stabilità e l’equilibrio mentale, mantenendo qualche chilo in più.
Per queste persone che non hanno superato e non sono consapevoli di tale paura non è la dieta ipocalorica la soluzione corretta. Anzi risulterebbe ancora più dannosa, aumentando questa paura inconscia e facendo ingrassare ulteriormente il soggetto in questione.
Spesso si è raffrontato il soprappeso con le condizioni economiche o con le classi sociali, attribuzione discutibile, ma che rimanda la paura del peso e della fame a sicurezza economica e a stabilità sociale.
Lo satus mentis ed il comportamento a tavola delle nostre nonne, ne sono la conferma: abbondanza di cibo e chili di troppo sono sintomo di ricchezza e benessere.
Pensiamo solo per un attimo all’inizio della guerra del golfo: in Italia furono svuotati, presi d’ assalto i supermercati, eppure razionalmente, in Italia, non si rischiava di morire di fame.
Dunque dobbiamo anche fare i conti con il fatto che l’energia di riserva, il grasso di deposito, ci rassicura contro il più pericoloso nemico dell’uomo : LA FAME.
La morte per fame è ancora oggi, nonostante il progresso, un fantasma sempre presente…
Per contro, incombe paradossalmente, la morte per eccesso di cibo…..
La soluzione per poter combattere tale smarrimento, e tutte le insicurezze connesse al proprio rapporto con il cibo è dunque, razionalizzare e combattere queste paure!
Riconoscerle, conoscersi, ascoltarle, ascoltarsi è il primo passo per poter scendere di peso.
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